El trabajo y los terremotos como fuentes de transformación irreversible de la sociedad por un lado, del medio ambiente, por el otro. Es a partir de esta valiente pero adecuada comparación que la investigación sobre el futuro del trabajo en nuestro país, pero también en nuestro mundo, esbozada por Mario Mantovani en su ensayo “El trabajo tiene futuro. O más bien tres “, GueriniNext.
El autor, vicepresidente de Manageritalia, guía al lector a través de un razonamiento complejo, pero también accesible para los no profesionales, proponiendo tres posibles escenarios para el mundo del trabajo. Pero procedamos en orden.
No es posible predecir el día, la hora y el epicentro de un terremoto. Los italianos lo sabemos bien, habitantes de un área altamente sísmica e históricamente a menudo sin preparación para enfrentar las numerosas reconstrucciones obligatorias de un paisaje natural y antrópico comprometido irreversiblemente. Sin embargo, como explica Mario Mantovani, al trabajar en equipo es posible obtener muchos datos útiles sobre terremotos, identificar las áreas más sujetas a riesgos e intentar evitar los efectos catastróficos del terremoto, para mejorar solo los agentes de cambio. Como, por ejemplo, la investigación de expertos en áreas de riesgo, o el desarrollo de nuevas tecnologías destinadas a reducir el daño a las cosas y a las personas, además de la “cultura” del cambio por parte de la población, que podría ser “educada” para tratar estos eventos de la mejor manera.
Todas estas dinámicas que giran en torno al terremoto podrían repetirse y reconstruirse en el mundo del trabajo, como el epicentro de los cambios para la sociedad, a veces catastróficos e impredecibles, pero que siempre se pueden abordar de manera constructiva.
¿Cómo cambiará el mercado laboral? ¿Cuánto tiempo se pueden hacer pronósticos razonables? ¿Y cómo pueden abordarse juntos estos cambios de época, empresas y trabajadores? Es a partir de estas preguntas que Mario Mantovani propone tres escenarios posibles para el mundo del trabajo y, por lo tanto, de la economía. El primer escenario evolutivo es el del futuro inmediato, dentro de los próximos cinco años. El segundo es el dirigido a los contemporáneos, dentro de los próximos cincuenta años. El tercero, el más valiente y visionario, es el que supera los cincuenta años y nos coloca hacia panoramas y pronósticos más atrevidos, pero no imposibles.
En el primer escenario evolutivo del mundo del trabajo, en los próximos cinco años, Mario Mantovani traza el camino de una transformación organizacional y, en consecuencia, regulatoria, capaz de superar la distinción entre trabajo independiente y dependiente. Esta distinción histórica, no solo en nuestro país, combinada con la existente entre el sector público y el privado, a menudo ha llevado a la sensación de disparidad en nuestro sistema económico y productivo. Mario Mantovani tiene como objetivo eliminar estos límites, reales o aparentes, superando todos los obstáculos que han implicado hasta ahora, especialmente a nivel organizacional.
En el segundo escenario evolutivo, dentro de los próximos cincuenta años, Mario Mantovani prevé el nacimiento de la era de la robótica y analiza los efectos secundarios que esta revolución tecnológica tendrá en el mundo del trabajo y la sociedad.
La entrada en el tercer escenario evolutivo, el de un futuro más allá de los próximos cincuenta años, depende de la capacidad de mantener el equilibrio en el segundo escenario previsto. Las habilidades organizativas deben haber sido refinadas hasta tal punto en un período tan corto, que la era marcada por el control de las Inteligencias Artificiales se hizo lo más traumática posible, de modo que los modelos económicos que surgirán después de mediados de este siglo estén formados por las necesidades de hombre y no máquinas.
El análisis de Mario Mantovani es amplio, pero también lúcido y convincente. El autor parte de los conceptos básicos de nuestros eventos actuales, pero no teme lanzarse a futuras hipótesis distantes en el tiempo, capaces de soñar y planificar una mejora.
Lo más llamativo es el valor dado al trabajo en equipo completo en cada época pensada e imaginada. Solo trabajando juntos, de hecho, cada cambio será absorbido y hecho suyo, no sufrido y sufrido.
Lavoro e terremoto come fonti di trasformazione irreversibile della società da un lato, dell’ambiente dall’altro. È da questo paragone coraggioso, ma calzante che inizia l’indagine sul futuro del lavoro nel nostro Paese, ma anche nel nostro Mondo, delineata da Mario Mantovani nel suo saggio “Il lavoro ha un futuro. Anzi tre”, GueriniNext.
L’autore, vicepresidente di Manageritalia, guida il lettore attraverso un ragionamento complesso, ma accessibile anche ai non addetti ai lavori, prospettando tre scenari possibili per il mondo del lavoro. Ma procediamo con ordine.
Non è possibile prevedere giorno, ora e epicentro di un terremoto. Lo sappiamo bene noi Italiani, abitanti di una zona altamente sismica e storicamente troppo spesso impreparati a far fronte alle numerose ricostruzioni obbligate di un paesaggio naturale e antropico compromesso in modo irreversibile. Tuttavia, come spiega Mario Mantovani, lavorando in squadra è possibile ricavare molti dati utili sui terremoti, individuando le aree maggiormente soggette a rischio e cercando di prevenire gli effetti catastrofici dell’evento terremoto, per esaltarne solo gli agenti di cambiamento. Come, ad esempio, la ricerca degli esperti sulle aree a rischio, o lo svilupparsi di nuove tecnologie atte a ridurre i danni a cose e persone, oltre alla “cultura” del cambiamento da parte della popolazione, che potrebbe essere “educata” ad affrontare questi eventi nel modo migliore.
Tutte queste dinamiche che ruotano attorno al terremoto, potrebbero ripetersi e ricostruirsi nel mondo del lavoro, come epicentro di cambiamenti per la società, talvolta catastrofici e imprevedibili, ma che si possono affrontare sempre in modo costruttivo.
Come cambierà il mercato del lavoro? Entro quanto tempo è possibile fare previsioni sensate? E come si può affrontare insieme, aziende e lavoratori, questi cambiamenti epocali? È da questi interrogativi che Mario Mantovani prospetta tre scenari possibili per il mondo del lavoro e quindi dell’economia. Il primo scenario evolutivo è quello dell’immediato futuro, entro i prossimi cinque anni. Il secondo è quello rivolto ai contemporanei, entro i prossimi cinquant’anni. Il terzo, il più coraggioso e visionario, è quello che supera il cinquantennio e ci pone verso panoramiche e previsioni più ardite, ma non impossibili.
Nel primo scenario evolutivo del mondo del lavoro, entro i prossimi cinque anni, Mario Mantovani traccia il percorso di una trasformazione organizzativa e, di conseguenza, normativa, atta a superare la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Questa distinzione storica, non solo nel nostro Paese, unita a quella tra settore pubblico e privato, ha spesso determinato la sensazione della disparità nel nostro sistema economico e produttivo. Mario Mantovani mira a eliminare questi limiti, reali o apparenti, superandone tutti gli ostacoli che hanno comportato fino a oggi, soprattutto a livello organizzativo.
Nel secondo scenario evolutivo, entro i prossimi cinquant’anni, Mario Mantovani prospetta la nascita dell’Era Robotica e analizza gli effetti collaterali che questa rivoluzione tecnologica avrà sul mondo del lavoro e sulla società.
L’ingresso nel terzo scenario evolutivo, quello di un futuro oltre i prossimi cinquant’anni, dipende dalla capacità di mantenere gli equilibri nel secondo scenario prospettato. Le capacità organizzative dovranno essere state affinate a tal punto nel brevissimo periodo, da rendere il meno traumatica possibile l’era segnata dal controllo delle Intelligenze Artificiali, in modo che i modelli economici che nasceranno dopo la metà di questo secolo siano plasmati sulle esigenze dell’uomo e non delle macchine.
L’analisi di Mario Mantovani è di ampio respiro, ma anche lucida e stringente. L’autore parte dalle basi della nostra attualità, ma non teme di lanciarsi in ipotesi future lontane nel tempo, in grado di sognare oltre che di progettare un miglioramento.
Ciò che colpisce più di tutto è il valore dato al lavoro di squadra a tutto tondo in ogni epoca pensata e immaginata. Solo lavorando insieme, infatti, ogni cambiamento sarà assorbito e fatto proprio, non subito e sofferto.
Dopo aver analizzato con Roberto Saliola la crescita economica di Roma e del Lazio nel primo trimestre di quest’anno, allarghiamo i nostri orizzonti, occupandoci del variegato e vivace mondo delle Start-Up italiane e soffermandoci, in particolare, sui dati statistici relativi a questa prima parte del 2019 e sulle criticità di queste realtà.
A guidarci in questo interessante viaggio sarà Donatello
Aspromonte, esperto di tematiche finanziarie, Mentor di Start-Up innovative
e vicepresidente di Manageritalia Executive Professional, il quale ha
risposto alle nostre domande sul ruolo del Mentor come figura istituzionale e
di supporto ai giovani imprenditori, aiutandoci ad analizzare correttamente i
dati che vedono questo settore in crescita, tenendo, però, conto dei fattori di
reale innovatività dei progetti, con riferimento ai concetti di scalabilità e
replicabilità di questi.
Non sempre, infatti, i numeri in crescita indicano la reale
capacità del Paese di favorire la nascita di Start-Up innovative, ed è proprio
qui che il supporto del Mentor svolge un ruolo fondamentale affinchè i tanti e
validi progetti appena nati superino positivamente le fasi iniziali di ingresso
nel mercato, concretizzando la creazione di prodotti e posti di lavoro.
Come si distingue, dunque, una realtà davvero “start-up friendly”, da una non ancora matura? E come ovviare a tutte le difficoltà, valorizzando i progetti originali e validi dei tanti giovani che si avviano verso questi percorsi? A questo e molti altri interrogativi ha risposto per noi Donatello Aspromonte, delineando linee guida utili a tutti gli addetti ai lavori e non, illustrandoci, tra l’altro, un interessante progetto realizzato da Manageritalia in concerto con le Università italiane, per far sì che, già negli anni della formazione, gli studenti, aspiranti startupper, siano informati e aggiornati in merito.
Qual è la situazione delle Start-Up a Roma e nel Lazio durante il
primo trimestre 2019?
Se parliamo di dati statistici, la situazione è questa: le
start-up innovative iscritte nel registro delle imprese 30 giugno 2019 sono
10.426, in aumento di 351 unità rispetto a fine marzo e di circa 500 unità
rispetto al 2018. Circa il 25% del totale delle start up innovative è ubicato
in Lombardia, mentre il Lazio si colloca in seconda posizione, con una
percentuale dell’11%.
La situazione quindi è positiva?
Non proprio: ritengo che una lettura poco attenta dei dati
statistici possa portare a conclusioni fuorvianti.
Cosa intende?
Intendo dire questo: nel contesto internazionale la definizione di
start-up porta con sé due concetti fondamentali, ossia la scalabilità e la
replicabilità. Una start-up, per definirsi tale deve avere un progetto di
innovazione caratterizzato da una crescita potenzialmente rapida, innestato in
un business model che sia facilmente scalabile e replicabile. Se manca uno di
questi requisiti non c’è una start-up, ma semplicemente un nuovo progetto di
impresa.
E in Italia?
In Italia, invece non è così: da un punto di vista normativo, per
essere una start-up innovativa occorre rispettare una serie di requisiti
formali, ad esempio quello di inserire nel proprio oggetto sociale le attività
di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti e servizi ad alto
valore tecnologico o di assumere personale laureato o con dottorato di ricerca.
Per cui esistono dei progetti di impresa che, pur non essendo né scalabili né
replicabili, vengono considerati a tutti gli effetti delle start-up,
semplicemente perché rispettano requisiti burocratici e normativi.
Quindi il fatto che il numero di start-up innovative cresca non è
un indicatore valido della capacità del Paese di favorire la nascita di
start-up innovative, giusto?
Esatto. Il fatto che il numero di start-up innovative –
nell’accezione normativa italiana – cresca, non comporta necessariamente che
l’Italia sia un Paese “start-up friendly” ossia un Paese che favorisca la nascita
delle start-up; e difatti non lo è, anche analizzando le utile classifiche dei
Paesi dove è più facile creare una start-up, che colloca l’Italia alla 27°
posizione, in una classifica nella quale nei primi 10 posti troviamo i soliti
noti (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada Germania, Olanda). È un dato di fatto
che molte start-up create da giovani italiani siano state costituite ad
Amsterdam o a Londra. C’è poi anche un discorso legato alla dimensione
economica ed organizzativa delle start-up italiane: su oltre 10.000 start-up
innovative iscritte, meno della metà hanno dipendenti e il valore medio dei
dipendenti non supera le 4 unità, mentre il valore della produzione medio è di
circa 150.000 euro; bastano questi dati per fotografare la dimensione del fenomeno
nel nostro Paese, molto lontano dai numeri delle start-up di altri Paesi.
Quali sono le altre problematiche che le start-up italiane
incontrano?
Sono diversi, ma quelli secondo me più importanti sono due. Il
primo problema è legato alla mancanza di competenze manageriali da parte degli
startupper. Sempre più spesso, infatti, i giovani hanno idee veramente
brillanti ma non hanno le esperienze necessarie per “metterle a terra”, per
sviluppare percorsi progettuali di esplorazione delle potenzialità di mercato
della propria idea ed è proprio la mancanza di un serio accompagnamento delle
start-up nelle primissime fasi di vita a determinarne l’insuccesso. Purtroppo
gli incubatori-acceleratori privati riescono a soddisfare poche richieste di
assistenza e preferiscono puntare su start-up con una certa storicità, mentre
quelli di derivazione pubblica – soprattutto a carattere regionale – a cui
viene demandata la fase di pre-seed, mostrano i segni del tempo, intrappolati
in procedure burocratiche e amministrative eccessive.
E il secondo problema?
Il secondo problema è legato alla difficoltà che le start-up
riscontrano nel reperire equity, ossia capitale di rischio. Purtroppo il
sistema del venture capital italiano non è ancora sviluppato; consideri che, in
base ai dati del secondo trimestre 2019, la Gran Bretagna ha messo a segno
investimenti di venture capital per 3,2 miliardi, con circa 234 round di
finanziamento, mentre la Francia ha raccolto investimenti per 1,4 miliardi con
131 round, seguita dalla Germania (1,3 miliardi di investimenti e 119 round) e
dalla Svezia (1,3 miliardi 3 e 58 round). L’Italia è dodicesima con
investimenti pari a 100 milioni con 26 round piazzati. Il raffronto tra i
diversi Paesi mostra l’arretratezza del nostro Paese su questi temi. A questo
si aggiunge anche che le organizzazioni di business angeling ancora non
raggiungono le dimensioni di quelle presenti in altri paesi europei. E questo
penalizza gli startupper italiani, che si vedono costretti a spostarsi in altri
paesi dove la raccolta dei capitali risulta essere alla portata.
E gli incentivi pubblici riescono a sortire qualche effetto?
Esistono diverse misure agevolative e strutture a supporto
dell’innovazione: solo per citarne qualcuna, penso alla misura Smart&Start
di Invitalia o all’operatività di Invitalia Ventures, alle agevolazioni fiscali
per chi investe in start-up innovative o al fondo nazionale innovazione del
MISE fino ai voucher per l’innovation manager. Tutte misure utili, ma il
problema è un altro.
Quale?
Occorre una visione unica, un’unica cabina di regia, in grado di
coordinare gli sforzi di tutti gli attori coinvolti, sia pubblici che privati.
Occorre fare squadra, per creare il giusto ambiente in grado di favorire la
nascita e la crescita di nuove imprese. Per questo ritengo che l’idea di
costituire un Ministero dell’Innovazione, in grado di coordinare l’operato dei
soggetti che operano con e per le start-up, possa essere utilissimo, a patto di
non replicare i fallimentari tentativi del passato recente.
In un contesto come questo, qual è il ruolo del Mentor?
La presenza di un bravo mentor, soprattutto nelle fasi iniziali del percorso imprenditoriale è fondamentale. Talvolta il problema è che gli startupper sono troppo innamorati della loro idea iniziale, talmente presi che tendono a rigettare qualunque proposta di cambiamento. Avere una buona idea è sicuramente una pre-condizione fondamentale per creare una start-up di successo, ma potrebbe non bastare.
In cosa consiste il suo lavoro di mentorship?
È un percorso articolato, ma semplificabile nel modo seguente:
guidare lo startupper a porsi le domande giuste, supportandolo nella
definizione e nella validazione di un business model efficacie, oltre che nella
definizione di un piano finanziario sostenibile e alla ricerca di fonti di
finanziamento adeguate.
Parliamo del progetto che state lanciando nelle Università
italiane.
Per scovare le innovazioni abbiamo deciso di andare lì dove è più
probabile trovarle, ossia nelle università. Abbiamo creato un format progettuale
– denominato Hackathon UniversItalia – che è un progetto in partnership tra
ManagerItalia Lazio Abruzzo Molise Sardegna Umbria e le principali università
italiane. A partire da Settembre 2019 e per tutto il 2020, in maniera
itinerante, organizzeremo delle full-immersion di tre giorni, delle vere e
proprie “maratone dell’innovazione”, con una partecipazione ampia e trasversale
di studenti, makers, imprenditori, professionisti, docenti universitari, etc:
una sorta di community locale per l’innovazione, composta da persone che si
mettono in gioco per individuare soluzioni disruptive su tematiche ed ambiti
specifici. Abbiamo iniziato il 16 Settembre con la presentazione del progetto
presso l’Università di Perugia, per poi continuare nelle sedi delle altre Università
partner sparse su tutto il territorio nazionale.
Il 7 e 8 Giugno scorso, a Genova, si è svolta la novantatreesima Assemblea Nazionale di Manageritalia, intitolata “Navighiamo insieme ai Genovesi”, che si è distinta, ancora una volta, non solo per la partecipazione e l’impegno dei suoi esponenti, ma sempre più per l’obiettivo di contributo sociale e antropologico che l’Associazione vuole dare nel momento di grande difficoltà che il Paese sta attraversando. Riteniamo, infatti, che solo grazie a un investimento nelle capacità di guida e di innovazione nelle varie aree di azione può concretizzarsi una possibilità di successo e di rinascita.
Ormai da diverso tempo, ho l’orgoglio di far parte di questa comunità di managers, pionieri di un nuovo senso di responsabilità verso la responsabilità di essere cittadini del nostro Paese e, per approfondire tutte le tematiche trattate in Assemblea, vi invito visitare il seguente link:
Nel Lazio, nei primi tre trimestri del 2018 la crescita dei livelli di attività è stata più debole di quella registrata l’anno precedente.
Nel comparto industriale il fatturato è moderatamente cresciuto e gli investimenti sono aumentati. Dopo la forte crescita del 2017, le esportazioni sono diminuite, anche a causa della flessione nei comparti della metalmeccanica e della chimica. Nel settore delle costruzioni, invece, la produzione ha ristagnato, mentre in quello immobiliare le compravendite sono aumentate a un ritmo inferiore di quello medio nazionale facendo aumentare la diminuzione dei prezzi.
Dal punto di vista economico, il Pil del Lazio ha registrato una flessione doppia (-6%) rispetto alla Lombardia (-3,3%) ma, nonostante questo, Roma si attesta nella media nazionale a livello provinciale (attorno al -6%) mentre Milano cresce di un punto. Volendo citare in alternativa i termini pro-capite a Roma la flessione è ben più marcata (-15%) rispetto a quella nazionale (-9%), nonché di Milano (-6%).
Dall’inizio della crisi Roma versa in uno stato di regressione in termini di Valore Aggiunto, che segna una riduzione pari a circa il 5%, a differenza di Milano che invece marca un incremento dell’1,5%.
Diverso, fortunatamente, è il discorso legato all’imprenditoria. Infatti, sono 657.855 le imprese registrate al 31 dicembre 2018 nella regione Lazio, pari al 10,8% del totale delle imprese italiane e, se nello stesso anno le iscrizioni sono state 39.543 e le cessazioni 29.322, non si può non sottolineare un saldo positivo di 10.221 imprese. Con questi dati ed in termini assoluti, il Lazio è la prima regione italiana per crescita del numero delle imprese, seguita da Campania e Lombardia.
In via generale, tutte le province del Lazio registrano un valore positivo e superiore alla media nazionale (+0,52%), con Roma capofila in Italia che, nel 2018, ha registrato un +1,81% – pari a 8.916 imprese in più -, facilmente traducibile con il tasso di crescita più alto tra le province italiane e più del triplo rispetto alla media italiana.
Se le società di capitali rappresentano ancora la percentuale maggiore di imprese registrate nonostante il continuo calo che si è avuto nel corso degli anni, va sottolineata la continua crescita delle imprese individuali.
Spostando l’analisi sul mercato del lavoro, l’occupazione è aumentata (+1,2%) ma a un tasso inferiore a quello registrato nel 2017 e, al calo degli occupati nei servizi e nelle costruzioni, si è contrapposta una crescita nell’industria e in agricoltura. L’aumento ha interessato i lavoratori dipendenti, soprattutto a tempo determinato e contemporaneamente si assiste all’aumento del tasso di disoccupazione che tocca quota 11,9%. Questo dato dipende anche dalla riduzione del fenomeno dello scoraggiamento, cioè dell’entrata nel mercato del lavoro da parte di popolazione attiva fino a quel momento rinunciataria, motivo per il quale i dati evidenziano una diminuzione del 4,3% degli inattivi.
A questo punto un doveroso accenno va fatto ad uno dei settori produttivi che alimentano l’economia di Roma, e cioè il turismo, perché prendendo spunto dai dati di performance della capitale, possiamo fare una panoramica sul posizionamento mondiale di Roma relativamente a 6 indicatori.
Tra gennaio e agosto le presenze turistiche nella Città Metropolitana di Roma sono aumentate del 3,1% su base annuale, rappresentando circa il 90% del totale regionale.Nonostante le potenzialità nel turismo, va detto che Roma si posiziona al 4° posto – dietro Berlino – per numero di pernottamenti con un trenddi crescita in rallentamento a differenza della media europea. La permanenza media degli stranieri negli esercizi ricettivi con un range che va dai due ai sei giorni, rappresenta una curva negativa considerevolmente inferiore ad altre capitali europee – si pensi che Londra e Amsterdam hanno una permanenza media di rispettivamente 6,2 e 3,9 giorni -. Analogamente, analizzando l’indice delle conferenze e degli eventi business, che rappresentano una componente ad alto valore aggiunto della filiera turistica in termini sia economici che strategici, dove lo spendinggiornaliero pro-capite è circa 5 volte quello di un turista tradizionale, Roma si posiziona solo 20esima come numero di eventi. A titolo meramente esemplificativo, gli eventi in questo settore organizzati sono stati appena novantasei nell’anno 2016, pari a circa la metà di quelli organizzati nella città di Parigi.
Prendendo ad esempio i due benchmarkrappresentati da Parigi e Londra per fornire una panoramica del posizionamento di Roma, si riporta la situazione relativamente a 6 indicatori.
Una situazione certamente non esaltante e che fotografa in maniera impietosa lo stato di Roma. Riassumendo: Roma è una città che non ha saputo rimanere agganciata al treno delle principali capitali europee in termini di branding, innovazione, qualità della vita e cultura ma, nonostante questo, riesce a distinguersi per il maggior numero di imprese e di lavoratori, anceh se la ricchezza prodotta risulta essere inferiore.
La velocità del cambiamento nell’economia, le nuove tecnologie, le tipologie contrattuali meno “solide” stanno creando un senso molto forte di incertezza sulle prospettive reddituali future delle famiglie e in particolare dei giovani che restano i più penalizzati in termini di opportunità lavorative. I numeri presentati testimoniano infatti una riduzione delle SpA (-13%) e un’esplosione della micro-impresa in settori a basso valore aggiunto come Commercio ambulante (+30%) e Affittacamere (+150%). Molte grandi aziende stanno riposizionando e modificando le loro strategie di investimento, penalizzando Roma che in questa fase non gode di una buona immagine come “città d’affari”. Ma, oltre all’impatto negativo delle grandi imprese che lasciano la città, il danno più rilevante deriva dalle nuove imprese che non riusciamo ad attrarre. In controtendenza ai dati sopra citati, invece, abbiamo segnali di sviluppo consistenti che si registrano nel mondo delle start up innovative e nell’economia della conoscenza, con un utilizzo di forza lavoro qualificata ben al di sopra della media nazionale. Nel Lazio, tra il 2012 e il 2016, la quota di occupati in possesso di una laurea si è attestata in media al 26,1%, determinando un valore più contenuto della media UE-28 (33,0%) ma superiore alla media nazionale (20,2%). Roma è il primo polo universitario italiano per numero di studenti (14% del totale), con il gruppo economico-statistico che conta il maggior numero di iscritti, anche se poi nel World University Ranking Roma si posiziona al 65° posto.
La capacità innovativa del Lazio è più elevata della media nazionale, grazie a una buona dotazione di capitale umano occupato di elevata scolarizzazione e specializzazione e alla ricerca svolta dalle istituzioni pubbliche. Malgrado ciò, appare persiste un sentimento di minor soddisfazione per l’attività innovativa delle imprese.
Roma può contare su una rete di circa 20 tra incubatori ed acceleratori, 12 Fab Labs, 5 Technology Transfer Centers, più di 50Smart Working Centerse più di 20 associazioni ed istituzioni con specifici programmi imprenditoriali dedicati alle start uptecnologiche.
Alla fine del 2018 nel Lazio erano iscritte al Registro delle imprese delle Camere di Commercio 1079 start up innovative, circa il 10% del totale nazionale, di cui 969 localizzate nella provincia di Roma, rendendo così questa regione la seconda per numero di start updopo la Lombardia (2417).
l’importanza di questi dati, ha portato Manageritaliaa presidiare da alcuni anni il settore delle start upinnovative, con iniziative nazionali e progetti territoriali.
Lo scorso anno è iniziato in versione sperimentale un progetto che chiamato “Start Up & Hope”, con l’intento di portare nelle ultime classi delle scuole superiori la metodica più innovativa oggi presente per creare start up. Il progetto ha avuto come partner l’Associazione Nazionale Presidi e Lazio Innova e, per facilitarne l’ingresso nelle scuole, il progetto è stato presentato ammissibile all’iniziativa governativa “Alternanza scuola-lavoro”.
Sono state così realizzate sessioni informative/formative in 26 istituti superiori di Roma e del Lazio, incontrando più di 1200 studenti. Le idee presentate dagli studenti, attraverso progressivi filtri che ne hanno definito meglio le caratteristiche e la fattibilità, hanno dato vita a 16 idee progettuali. Di queste sei sono diventate progetti d’impresa e, alla fine del processo di affinamento e selezione, due dei progetti sono stati portati in pre-incubazione presso Lazio Innova.
Roberto Saliola
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