Come può una commedia diventare spunto di riflessione?
“Scusate se esisto”, di cui parleremo oggi, film di Roberto Milani con Paola Cortellesi e Raoul Bova, riesce pienamente in questo intento.
Tra risate e colpi di scena davvero divertenti, questa pellicola del 2014 prodotta da Fulvio e Federica Lucisano per Italian International Film e Rai Cinema, è un condensato della realtà odierna, mostrando senza mezzi termini le difficoltà del libero professionista, soprattutto quando è donna.
L’architetto Serena Bruno si è laureata a pieni voti dando il massimo negli studi, ha una carriera di successo all’estero, dirige grandi cantieri nella city londinese e parla almeno quattro lingue diverse.
Al termine dell’ultimo progetto di cui è capo, parlando con i colleghi che puntano a mete lontane e in pieno sviluppo, l’architetto Serena Bruno vuole rilanciare una scelta rivoluzionaria e, tra lo sconcerto generale, decide di tornare in Italia perché ama il suo paese.
Così si ritrova nella periferia della capitale a lavorare contemporaneamente come arredatrice di interni (in un grande magazzino che vende mobili per clienti tutt’altro che raffinati), curatrice dell’edificazione di un mausoleo per la famiglia storica più influente della zona (la tomba del proprietario di un compro oro che pretende pacchianerie di altri tempi) e come cameriera per continuare a mantenersi dopo aver esaurito i risparmi del lavoro all’estero.
L’incontro con due giovani (ma gentili) ladruncoli che le fregano il vecchio motorino del padre, le fanno scoprire l’edificio del Corviale che diventa il suo più grande progetto.
Sicura di sé e delle sue capacità di architetto, partecipa ad un bando per la riqualificazione del mastodontico complesso di edilizia popolare e al colloquio convince la commissione esaminatrice, non tanto per le sue idee innovative, quanto per il suo fingersi la segretaria dell’architetto Bruno Serena.
Tra scene tragicomiche, la complicità del proprietario (Raoul Bova) del locale dove lei fa la cameriera, le loro vite che si intrecciano con quelle degli altri protagonisti del film, il mondo dell’architetto Bruno Serena crolla e con esso vengono abbattuti di tutti gli stereotipi messi in scena e scoperte tutte le carte in tavola.
Questo film, basato sulla storia vera dell’architetto Guendalina Salimei, ha portato sullo schermo la reale storia sua e del “Chilometro verde”, un progetto di riqualificazione di questo complesso residenziale popolare nella periferia della capitale.
Parallelamente, anche se frutto della sceneggiatura che ha romanzato il vero, viene raccontato e dimostrato come essere donna in un ambiente prettamente maschile sia complicato e che spesso i talenti italiani, all’estero considerati tesori e spesi nel migliore dei modi, una volta tornati in patria si ritrovano a dover fare i salti mortali non solo per sbarcare il lunario e sopravvivere, ma soprattutto per far valere le proprie capacità.
Serena Bruno rappresenta tutte le donne che alla firma del contratto con il datore di lavoro si trovano a dover sottoscrivere una piccola clausola proforma, “un espediente di natura prettamente precauzionale, giusto in caso di eventi catastrofici, tipo alluvioni, trombe d’aria, meteoriti e gravidanze” che di certo ad un uomo non viene chiesto.
Così, se la considerazione del firmare in anticipo le proprie dimissioni è decisamente ingiusto, bisogna ricordarsi che rappresenta una realtà tristemente vera.
Serena Bruno è la donna che lavora assiduamente al suo progetto, che ha fatto i sopralluoghi al Corviale e parlato con la gente, chiedendo loro cosa volessero, per realizzare più che i suoi sogni, quelli delle persone che vivono lì.
Serena Bruno è la persona che poco prima di entrare a fare il colloquio, ascolta indecisa una altra aspirante architetto, già arresasi al sistema, che le dice come un progetto del genere non lo daranno mai ad una donna. Ed è lì che ha il lampo di genio, fingersi qualcun altro per diventare qualcuno, facendo semplicemente quello che i futuri datori di lavoro si aspettavano, un architetto uomo con una segretaria donna.
Serena Bruno è l’opposto di Michela (Lunetta Savino), la segretaria del capo Ripamonti, ricco egoista, maschilista e sfruttatore (Ennio Fantastichini), per anni asservita e annullata pur di lavorare, convinta che “loro (gli uomini) stanno sotto i riflettori e noi stiamo dietro le quinte” ma in realtà il vero motore dell’impero Ripamonti, colei la quale non dimentica mai nulla ed è sempre sul pezzo.
Serena Bruno fa crollare il sistema. È una donna caparbia e coraggiosa, che ha combattuto, seppur con l’inganno, il maschilismo di una professione e ha abbattuto il muro tra il dover essere agli occhi degli altri e quello che realmente si è.
Ma il binomio donna-libera professione è così scoraggiante nella realtà?
Ciò che salta agli occhi leggendo i dati delle ultime inchieste e ricerche, è principalmente il discorso economico. Le donne guadagnano meno degli uomini e, a ben ricordare, qualche anno fa fecero anche uno spot in materia.
Ebbene, nel mondo dell’architettura continuano ad esistere condizioni di diseguaglianza lavorativa, professionale ed economica. Perciò se può sembrare positivo il fatto che il 42% degli architetti siano donne, registrando un incremento dell’11% dal 1998 ad oggi, bisogna subito fare i conti con la differenza retributiva che, in media, per una donna è inferiore del 57%.
In realtà non c’è da stupirsi e questo problema non riguarda solo il mondo degli architetti, perché in via generale nel nostro paese la remunerazione fra lavoratrici e lavoratori è inferiore del 10,9%, valore che lievita fino al 36,3% quando si parla dei laureati.
Ma non è solo un discorso economico.
Il rapporto Eurostat del 2015, riportava che il 40% delle donne ritenute inattive nel mondo del lavoro italiano ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario. Appare quindi evidente che a livello professionale, le donne sono sia formate che qualificate per lo svolgimento delle differenti attività lavorative, ma si scontrano con dei preconcetti culturali talmente radicati nel comune sentire da essere difficilmente scardinati.
Ed effettivamente è così, se ci pensate, i ruoli di controllo, amministrazione e gestione sono prevalentemente occupati da uomini. Nelle libere professioni statisticamente ci sono più uomini che donne. Questo perché culturalmente la donna è sempre stata vista più affine ai ruoli lavorativi legati al mondo dell’istruzione e dell’assistenza, tanto medica quanto sociale, che a capo di una azienda o in un cantiere a sporcarsi le mani di malta.
Ancora, la donna è il fulcro della famiglia, è colei che la gestisce, la cresce, è la parte fondamentale per darle vita e spesso questo si scontra con le aspirazioni professionali della donna-(futura)mamma. È culturalmente lei che si è sempre occupata della cura della casa.
Di conseguenza la donna, più dell’uomo, è generalmente portata a fare la scelta tra la propria ambizione professionale e il resto.
Bisogna chiedersi allora se siamo pronti, come sta iniziando a succedere, che i ruoli assumano delle sfumature meno nette e che ci si possa tranquillamente interscambiare, senza scadere in facili considerazioni di genere.
Sappiate che ad oggi esistono anche uomini casalinghi – per scelta – che si dedicano alla cura della famiglia mentre le consorti si concentrano sul lavoro, senza che il mondo vada in frantumi.
Francesca Tesoro