La Nuvola di Fuksas, un anno dopo: un futuro ancora in attesa

È trascorso più di un anno dall’inaugurazione ufficiale del Roma Convention Center, meglio conosciuto come la Nuvola di Fuksas.

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L’apertura al pubblico era stata infatti ufficializzata il 29 ottobre 2016, in presenza dell’allora presidente del consiglio Matteo Renzi, del sindaco di Roma Virginia Raggi e dell’architetto, autore del progetto, Massimiliano Fuksas. Il colossale Nuovo Centro Congressi è stato presentato come una grande nuova opportunità per la città di Roma, un’opera di livello internazionale di una grande firma dell’architettura che, assieme ad altri grandi protagonisti del panorama architettonico contemporaneo come Zaha Hadid, Renzo Piano e Odile Decq, ha lasciato un segno nella capitale italiana.

Il complesso si presenta ora alla città nella sua maestosità e grandezza: “shock estetico”, come era stato definito nel 2011 dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, inserito in un contesto dominato dal linguaggio espressivo del il razionalismo architettonico degli anni Trenta e Quaranta. È sicuramente interessante riportare le parole di Bonito Oliva durante una lectio magistralis tenuta all’Università Sapienza di Roma:

Quando ho visto il progetto della Nuvola ho capito benissimo perché era importante quella Nuvola all’Eur, un quartiere di archeologia architettonica legato a un’ideologia, ma dove prevaleva la geometria della linea retta. Con una nuvola lui ha introdotto il perturbante, ha concretizzato il concetto di tempo. Goethe aveva detto che la forma dell’arte è la forma della nuvola, intesa come sospetto di una forma in trasformazione che si vaporizza nello spazio e nel tempo e accudisce un’architettura circondata dall’ottimismo granitico del Ventennio.”

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Secondo l’opinione del critico dunque, il progetto si inserisce concettualmente nel territorio senza assorbirlo, quale ossimoro architettonico con una propria identità e linguaggio geometrico, in armonia con il contesto urbano.

Nella traduzione dalle geometrie alle strutture il progetto rivela tutta la sua complessità, ma non manca di allinearsi con le esigenze odierne in termini di consumo energetico: questo infatti si contraddistingue per un approccio eco-compatibile, grazie ad un sistema di climatizzazione a portata variabile dell’aria condizionata che consente un consumo ottimale di energia in funzione dell’effettivo affollamento dei locali; sulla copertura della Teca, contenente la Nuvola, è presente la sistemazione di elementi fotovoltaici che consentono una produzione naturale di energia elettrica e la protezione dell’edificio dal surriscaldamento attraverso la mitigazione della radiazione solare.

In contrapposizione con le disquisizioni estetiche che denotano come il progetto della Nuvola rappresenti un passaggio importante dell’architettura contemporanea, non è possibile sottacere le problematiche legate alle fasi di realizzazione, di carattere prettamente logistico ed economico: dalla “posa della prima pietra”, avvenuta l’11 dicembre 2007 all’inaugurazione, la costruzione dell’edificato è stata spesso al centro di polemiche in merito ai ritardi dovuti alle ristrettezze di bilancio del Comune di Roma, nonché ai costi aggiuntivi, lievitati dai 275 milioni di euro previsti fino a 238,9 milioni.

Nonostante la speranza che la fine dei lavori significasse anche la fine delle difficoltà e la consegna ufficiale di un nuovo punto nevralgico al quartiere dell’Eur ed alla città, dal carattere internazionale e strategico, un ulteriore ostacolo si è presentato a pochi mesi dall’inaugurazione: una evidente non conformità fra il progetto approvato e la effettiva occupazione del suolo.

L’evidenza, rappresentata dalla sporgenza dell’edificato di due metri su Corso Europa, una delle quattro vie confinanti, comporta un disallineamento del lotto rispetto agli altri edifici, invadendo la sede stradale ed interrompendo la visuale prospettica dall’Archivio Centrale di Stato alla basilica dei Santi Pietro e Paolo, tutelato a livello architettonico e urbanistico, così come tutto il quartiere Eur, dalla Sovrintendenza di Stato.

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Trovare soluzione a questo ulteriore problema non deve essere certo semplice, dopo le spese già sostenute in questi anni. Nonostante tutto è fondamentale agire al più presto in modo da attivare finalmente la fruizione del Centro Congressi, evitando che il tempo la trasformi in un grande vuoto urbano e la coscienza collettiva ne dimentichi l’identità e l’utilità.

Al destino della Nuvola è legato anche il futuro dell’Hotel “la Lama”, facente parte dello stesso complesso: l’albergo, costruito assieme al centro congressi, aperto da novembre del 2016 dopo una spesa di 353 milioni di euro, era stata messa in vendita con bando pubblico da Eur Spa, proprietario dell’intero Centro Congressi, che dopo numerose posticipazioni ha comunicato un ulteriore slittamento del bando al 15 dicembre 2017, motivando così: “in attesa che si concludano le attività presso l’amministrazione comunale, presupponenti la verifica complessiva di conformità urbanistico-edilizia dell’immobile oggetto di vendita, necessarie alla conclusione dell’iter autorizzativo”.

Il futuro della Nuvola è dunque ancora in attesa.

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Giorgia Less

Carlo Messina: spostare il focus dalla semplice competenza alla persona

Può la crescita personale incidere positivamente sulla crescita del contesto professionale? Questa è la mission di Inforgroup (www.inforgroup.eu), ente di formazione che da anni sviluppa attività di ricerca, selezione e orientamento, nell’ambito della formazione e dei servizi al lavoro: integrare e adeguare il potenziale delle risorse umane e professionali ai cambiamenti, con l’obiettivo di focalizzarsi sul capitale umano per valorizzare il potenziale organizzativo dell’impresa.

La poliedricità, il coraggio e l’innovazione sono le caratteristiche principali di ogni buon progetto, secondo il Direttore Commerciale di Inforgroup, Carlo Messina: agire in contesti simili con approcci differenti creando nuovi stimoli, non avere paura di cambiare, puntare sempre al futuro, indipendentemente dall’appartenenza generazionale.

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La sua esperienza nel campo della formazione e dello sviluppo del personale, mirato al benessere in qualunque contesto lavorativo, inizia nel Consorzio Elis e si concretizza, oggi, nel Gruppo De Pasquale. Tracciamo un bilancio di queste esperienze e di questo percorso di crescita aziendale, tra difficoltà e obiettivi raggiunti.

L’esperienza nel Consorzio Elis è stata fondamentale: non solo mi ha permesso di incontrare grandi aziende multinazionali con cui sperimentare progetti complessi e di alta qualità ma, non occupandosi esclusivamente del business ma anche di persone nella loro complessità e di contesti sociali ampi, mi ha spinto a lavorare in questo campo mediante un approccio sistemico.
Da un punto di vista professionale, Elis è stata una palestra dove gli ostacoli si sono rivelati importanti opportunità di apprendimento per l’azienda, oltre che di fiducia fra capi e dipendenti: per esempio, in un momento di difficoltà come quello di un change management interno all’azienda, ho introdotto importanti novità, ho condotto progetti innovativi (Talent Accademy), ho maturato la consapevolezza che non bisogna mai mollare e concentrarsi sempre sugli aspetti positivi.

Un bambino che vuole guardare una videocassetta sarà sempre più attratto da un film già visto, piuttosto che da uno nuovo, perché questo è comodo e rassicurante. Guardare il nuovo film assieme a lui significa dargli la sicurezza e la capacità di farlo anche da solo in futuro: questo è ciò che considero un modo costruttivo di affrontare il cambiamento.

Quando ho sentito che il mio percorso in Elis era concluso, ho lasciato l’azienda e ho iniziato una nuova avventura al “Campus Bio-Medico” di Roma dove, grazie alla preziosa figura del Consigliere dell’Università Lucio Fumagalli, ho sviluppato maggiori competenze in campo manageriale. I suoi aspetti fondamentali? Visione d’insieme, disciplina e ordine.

Alla fine sono arrivato nel Gruppo De Pasquale dove ho visto l’opportunità di realizzare un progetto completo nei servizi al lavoro, ovvero poter fornire formazione alle persone in ogni momento del proprio percorso: coloro che si avvicinano al mondo del lavoro, coloro che devono aggiornare le competenze e coloro che hanno bisogno di una riqualificazione delle competenze quando fuoriescono dal mondo del lavoro.

Una cosa importante è che nelle mie realtà lavorative ho sempre utilizzato approcci diversi per fornire all’azienda stimoli nuovi: per esempio le Talent Elis, che ho contribuito a creare, sono diverse dal resto dell’offerta formativa in quanto spostano l’attenzione dalla competenza alla persona. È essenziale che le persone capiscano perché devono lavorare in un certo modo piuttosto che in un altro.

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Per quel che concerne l’innovazione strategica del Management, ha approfondito particolarmente le questioni inerenti l’interaging, vedendo nell’integrazione tra diverse età nei contesti lavorativi una vera e propria risorsa e non un limite. Come si conciliano le differenze generazionali in azienda e come si possono ricollocare le varie risorse senza rinunciare alla dignità e al valore dei vari profili umani e professionali?

Un principio intoccabile è che le persone vanno ricollocate senza ferirle perché, in caso contrario, non ci sarà mai equilibrio generazionale.
Un conto è infatti se un dipendente decide di sua volontà di uscire dall’ambito della produzione per fare coaching, ben altra situazione è se si trova costretto da circostanze esterne: in questo caso difficilmente verrà fuori un buon lavoro.
L’interaging è dunque fondamentale. Se non sono presenti tutte le generazioni, si corrono due rischi: perdere freschezza e innovazione da una parte, perdere razionalità ed esperienza nel modellare l’innovazione dall’altra. L’interaging funziona se si riescono a contenere la frenesia, tipica della “cultura della performance” dei più giovani, e le paure dei più maturi. Entrambi devono essere aperti, pronti all’apprendimento e guardare al domani.
Per i più adulti, un consiglio molto utile: prendete in mano il vostro cv, cambiatelo e identificate nuove idee per il futuro.

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Crescere, semplificare, velocizzare: tre concetti fondamentali per il benessere e lo sviluppo aziendale in ogni settore. Cosa ha significato per lei applicare un approccio sistemico nell’ambito dei suoi progetti aziendali?

Crescere: è il tentativo di conciliare gli obiettivi di crescita personale con quelli aziendali. Se non si ha volontà di crescere personalmente, l’azienda non cresce.

Semplificare: snellire la comunicazione e l’organizzazione. Mi piace molto il concetto di delega, di lavoro in gruppo con ruoli ben definiti e di crescita della fiducia personale. Per fare un esempio, fornire supporto al commerciale nel raggiungimento della quota annuale, lavorando gradualmente sulla sua autostima piuttosto che valutando a posteriori una sua prestazione, consente di prevenire problematiche e complicazioni future.

Velocizzare: le idee non servono a nulla se non si concretizzano entro un certo tempo.

Che suggerimento darebbe a chi volesse seguire le sue orme in un momento di transizione così complesso e delicato per le realtà aziendali del nostro Paese e del Mondo intero?

Poniti degli obiettivi con scadenze precise ed esci dalla zona di comfort. Entra in un’azienda guidata da un capo che trasmetta fiducia, che stimoli le persone a crescere e che sia molto esigente. Le persone che nella mia personale esperienza sono cresciute di più sono quelle che ho messo a dura prova.
Punta sui progetti, non sul posto di lavoro. Infine, quando ti rendi conto che un progetto si è concluso, lascia l’azienda. Non sentirti mai padrone di quello che fai, sentiti sempre di passaggio.

A cosa sta lavorando attualmente? Ci racconti quali sono i suoi progetti per il futuro.

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Uno dei progetti che al momento sto portando avanti è il progetto Industry 4.0. Penso sia una grande opportunità per il sistema Paese perché siamo di fronte ad una rivoluzione industriale, la quale cambia i paradigmi imprenditoriali che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Questo può riportare la produzione nel nostro Paese innalzando ulteriormente la qualità di quanto prodotto.
Ciò significa dover ripensare le organizzazioni e i mestieri e incentivare modelli di servant leadership che stimolino le persone ad assumersi le responsabilità e a decidere nel momento opportuno cosa fare e, fattore imprescindibile, fare in modo che ogni persona possa sentirsi un attore importante della catena del valore alla quale si contribuisce.

www.inforgroup.eu

 

Giorgia Less

 

 

 

 

Maurizio Carta: Augmented City – un masterprogram per i tempi che cambiano

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La città: Smart o Augmented? Con una visione profondamente lucida, ed in un certo senso fortemente pionieristica, l’architetto e urbanista Maurizio Carta, Professore ordinario di urbanistica del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Palermo, ci invita a Re-immaginare l’urbanistica e, di conseguenza, a rileggere la città in quanto realtà “aumentata”, ovvero una città che adatta il proprio metabolismo a quello dei suoi abitanti piuttosto che una città tradizionale dotata di protesi tecnologiche.

Nella la sua proficua attività, densa di studi e pubblicazioni, tra cui citiamo “Reimagining Urbanism. Città creative, intelligenti ed ecologiche per i tempi che cambiano”, diventa imperativa la necessità di un nuovo approccio da adottare rispetto alla pianificazione ed alla rigenerazione di una città o di un territorio: un sistema in grado di ristabilire l’equilibrio fra le potenzialità, rilevare nuovi paradigmi, parametrizzarne i picchi di creatività presenti, utilizzare le criticità per ricostruire un programma funzionale e sistemico.

Emerge dunque un nuovo sistema in grado di leggere il mondo come organismo matabolico, ricettivo, sensibile e perturbabile e, come tale, veramente sondabile in profondità solo nell’ottica di un approccio strategico profondamente cosciente delle sue componenti. Una visione che mette in discussione i tradizionali strumenti di programmazione strategica, capaci di restituire un presente disattivo e “rasterizzato”, senza ponti con il futuro, e promuove invece un nuovo masterprogram, quale dispositivo in grado di implementare le porte di connessione fra il nostro mondo oggi e quello di domani.

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Architetto ed urbanista, ma con un approccio creativo, trasversale, emancipato dallo specialismo. Quali sono i passi che l’hanno portata ad adottare una visione più complessa del proprio ruolo?

Ho sempre creduto che l’urbanistica che voglia agire efficacemente nel dominio collettivo e produrre esiti sulla qualità della vita, sull’equilibrio delle libertà e sulla promozione della felicità delle comunità, debba essere in grado di interpretare le nuove domande sociali nel loro plurale dispiegarsi, per progettare e guidare una città delle identità e delle opportunità nell’alleanza tra le qualità territoriali e le idee e aspirazioni dei suoi abitanti. I valori etici della collettività diventano centrali per la pianificazione, non solo perché sono il luogo nel quale società e urbanistica si legano in modo più esplicito e forte, ma perché sempre di più sono strumenti della costruzione della città. Il diritto alla città di Lefebvriana memoria come impegno a “cambiare noi stessi cambiando l’aspetto delle nostre metropoli”, si traduce ogni giorno di più nella sfida compartecipativa e nella organizzazione dello spazio collettivo – non più solo pubblico – proponendo all’urbanistica nuovi obiettivi legati al mutamento di una società sempre più protagonista che voglia passare dall’attivismo alla cooperazione, dall’uso alla co-progettazione dei luoghi dell’abitare.
Oggi, nell’era della metamorfosi e nella transizione verso un nuovo modello urbano, nuove sfide attendono amministratori e urbanisti, attori e regolatori per opporre un efficace antidoto al rallentamento della capacità generativa e propulsiva delle città. Dopo due secoli caratterizzati dalla società industriale fordista – eccessivamente sbilanciata sulla fiducia nella ragione e sulle “magnifiche sorti e progressive” – dobbiamo entrare nell’età di un nuovo Antropocene, il quale non è solo caratterizzata dal primato della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, sulla smartness urbana e sul cosiddetto “internet delle cose” in cui l’ambiente fisico che ci circonda è connesso on cloud, ma anche su una rinnovata e produttiva dimensione ecologica degli insediamenti e sui nuovi diritti di cittadinanza basati sulla cooperazione e la condivisione. In questo nuovo scenario l’urbanistica richiede non solo nuovi paradigmi e rinnovati strumenti, ma anche un recupero delle passioni, della capacità delle emozioni di guidare le nostre decisioni in maniera complementare rispetto all’indirizzo dei ragionamenti razionali generati dalle conoscenze e dalle abilità.

Per uscire mutati dall’era della crisi, le decisioni di sviluppo territoriale dovranno essere capaci di attingere anche agli impulsi emotivi prodotti dalle opinioni, dagli atteggiamenti, dalle credenze personali e collettive e dai sentimenti. Pianificare nella crisi significa – come direbbe Spinoza – non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire. E comprendere significa sempre più spesso utilizzare contemporaneamente un approccio razionale ed emotivo.
La mia esperienza di urbanista – come studioso, docente e anche come amministratore pubblico – è sempre stata una “riflessione in azione” sui principali temi che oggi delineano l’impegno di ricerca e l’azione progettuale dell’urbanista: la rigenerazione urbana attraverso l’azione integrata, il potenziamento della dimensione culturale dello sviluppo territoriale e l’emergere di una stagione strategica in cui il negoziato deve essere temperato dal valore delle identità. Sono convinto, infatti, che l’impegno degli urbanisti militanti debba tornare a essere un poderoso esercizio della responsabilità nell’interesse collettivo, un’applicazione del metodo scientifico non solo all’indirizzo consapevole della decisione politica, ma alla riconnessione del patto costitutivo della comunità con il territorio, nella consapevolezza che la dimensione etica della pianificazione ci impegna a fornire risposte al nostro insediamento, al nostro bisogno di abitare, alle nostre necessità produttive attraverso le capacità, sempre meno demiurgiche e più cooperative, del piano. Perché esso offra sempre adeguato rifugio dai pericoli dell’individualismo, anche quando sono il frutto generoso dell’attivismo sostitutivo della comunità.
Sono convinto che il coraggio di governare nella transizione verso un nuovo modello di insediamento umano – nelle multi-città che abitiamo – impone un approccio proattivo ai problemi, nel senso mirabilmente sintetizzato da Danilo Dolci che ha sempre fatto della sua militanza politica e sociale un impegno pedagogico: “non immaginare il diverso futuro possibile, ignorare il futuro che vogliamo, ci mutila e ottunde nel presente”, e – aggiungo io – dobbiamo avere il coraggio e la forza, la lucidità e la follia, la responsabilità e l’ambizione di realizzarlo.

Augmented city: la città si espande, densa di nuove propulsioni. Quali sono i punti di forza?

La città come luogo di valorizzazione dell’intelligenza collettiva dei suoi abitanti invoca un cambiamento di paradigma in grado di produrre un set di strumenti procedurali e operativi per coloro che vogliono accettare la sfida di ribaltare una visione sterile e poco innovativa. Abbiamo bisogno di definire un nuovo terreno di gioco per una visione alternativa più proficua, capace di rinnovare e potenziare il ruolo della città come piattaforma abilitante delle capacità umane, come acceleratore di empowerment e come moltiplicatore del capitale umano. Oltre la Smart City, per superarne la retorica ipertecnologica, voglio proporre la Città Aumentata (Augmented City) come un dispositivo spaziale/culturale/sociale/economico per connettere le componenti della vita urbana contemporanea, individuale e collettiva, informale e istituzionale, generatrice di benessere e felicità.

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Ho individuato dieci concetti chiave in grado di connettere paradigmi e dispositivi dell’urbanistica e della pianificazione territoriale per progettare la città aumentata – in senso spaziale, sociale ed economico – di fronte alle sfide del XXI secolo.
Innanzitutto una città aumentata è senziente perché ha bisogno di nuove fonti, parametri e strumenti per rafforzare gli strumenti cognitivi, valutativi e attuativi di un’urbanistica sempre più basata sulla conoscenza istantanea e distribuita e capace di produrre soluzioni tempestive, efficaci, solide e orientate ad uno scenario di cooperazione. È quindi anche collaborativa perché necessita dell’alleanza strutturale tra le dimensioni civica-tecnologica- urbana per agire efficacemente nella Sharing Society in cui viviamo, generando nuove forme dello spazio collettivo. Una città aumentata è intelligente perché capace di generare un ecosistema abilitante basato sull’hardware fornito dalla qualità degli spazi urbani e sul software codificato dalla cittadinanza attiva, ma soprattutto dotato di un nuovo sistema operativo costituito da un’urbanistica e da un progetto urbano avanzati, capaci di rispondere alle mutate domande della contemporaneità. La quarta parola chiave è produttività perché le città del futuro prossimo dovranno incentivare la territorializzazione dei makers all’interno di un nuovi distretti urbani creativi/produttivi per stimolare, agevolare e localizzare adeguatamente il ritorno della produzione nelle città, nelle forme delle nuove manifatture digitali, per la ricostituzione di una indispensabile base economica delle città, dopo gli anni della euforia per la città dei servizi. Ma la città dovrà anche essere sempre più creativa attraverso l’uso integrato della cultura, della comunicazione e della cooperazione (le 3C della città creativa) come risorse per una città attiva in grado di generare una nuova forma e una diversa crescita fondate sull’identità, sulla qualità e sulla reputazione. Una città aumentata si fonda sul riciclo degli edifici e della aree dismesse e pertanto chiede una metamorfosi del paradigma basato non solo sulla riduzione, il riuso e il riciclo delle sue risorse materiali e immateriali, ma in grado di disegnare una nuova forma territoriale in grado di cogliere le opportunità del metabolismo circolare, inserendo anche il riciclo programmato tra le componenti del progetto. Una città aumentata è quindi resiliente perché accetta la sfida dell’adattamento come dispositivo progettuale per insediamenti iper-ciclici e autosufficienti capaci di combattere proattivamente il cambiamento climatico, producendo e distribuendo efficacemente il dividendo della resilienza;: non solo nuova moneta di scambio nella economia della transizione verso lo sviluppo decarbonizzato, ma anche strumento di una perequazione ecologica urbana. L’ottava parola chiave è la fluidità che chiede di ripensare la porosità e la liquidità urbana come paradigmi proiettivi per i progetti di rigenerazione urbana che traggano dall’acqua la loro carica identitaria, producendo nuove configurazioni spaziali a partire dal rinnovo dell’interfaccia città-porto non più come luogo-soglia ma come produttore di potente nuova identità urbana.

Nell’orizzonte metropolitano, in cui anche l’Italia sta procedendo con importanti aspettative e necessari miglioramenti, è la reticolarità che definisce il passaggio da un ecosistema tradizionale basato su un obsoleto modello gravitazionale verso un nuovo e più efficace modello aumentato, iper-metropolitano basato su un’armatura di super-organismi metropolitani e arcipelaghi territoriali in grado di strutturare il sistema paese. Infine, una città aumentata è strategica perché assume l’integrazione delle componenti temporale, gestionale, collaborativa e adattiva come necessarie per rispondere alla necessità di un approccio multi-dominio e multi-attore, temporalmente orientato e indirizzato all’azione entro un modello di sviluppo meno consumatore e più produttore, in grado di attivare diversi cicli vitali per riattivare distretti, città e paesaggi, meno finanziario e più cooperativo, più metabolico e meno occasionale.
Progettare la città aumentata richiede una continua sperimentazione delle
sue declinazioni spaziali, sociali, culturali ed economiche in grado di aumentare l’intelligenza collettiva dei suoi abitanti. Ha bisogno di alimentare una nuova agenda urbana che connetta le pratiche più sensibili, i nuovi apparati normativi e le mutazioni economiche emergenti.
La Città Aumentata richiede quindi di percorrere la sfida del progetto urbanistico come connessione di livelli, di persone e di luoghi.

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Un piano strategico in senso tradizionale sembra non essere più sufficiente per descrivere, analizzare e rispondere ai bisogni di  una città. Perchè? Quali atteggiamenti possiamo cambiare?

In Europa la stagione della rigenerazione urbana ha prodotto importanti effetti sia nella revisione dei dispositivi progettuali sia nel ripensamento delle forme dell’insediamento e delle sue relazioni spaziali e umane. Ma non può essere nascosto anche l’emergere di alcune patologie che spesso hanno anestetizzato, quando non annullato gli effetti rigenerativi prospettati. La transizione del modello di sviluppo post-crisi, se da un lato ha moltiplicato il ricorso ai processi di rigenerazione urbana dal basso, contemporaneamente ha esteso l’epidemia di fallimenti derivati da un approccio dall’alto, ancora legato a precedenti paradigmi regolativi e razional-comprensivi. Le criticità della rigenerazione urbana di matrice apicale, naturalmente, non possono essere risolte solo revisionando le procedure di partecipazione, migliorando i dispositivi progettuali o innovando i processi attuativi: va ribaltato il punto di vista. Un concreto ed efficace processo per la rigenerazione di aree urbane caratterizzate da marginalizzazione e declino, da dismissione di edifici e infrastrutture, da sottoutilizzo funzionale o da cicli in debole riattivazione (mobilità, acqua, rifiuti) deve assumere un approccio che non solo rifiuti il tradizionale e ormai inefficace top-down strategico, ma che nemmeno ceda superficialmente alle retoriche consolatorie del bottom-up tattico. Serve un approccio strategico circolare, programmaticamente incrementale, processualmente ricorsivo e progettualmente flessibile, piuttosto che una strategia chiusa e simultanea. Al tradizionale masterplan rigido, istantaneo e pressoché immutabile nel corso della sua attuazione – inefficace in aree che non possano godere della destinazione di ingenti risorse pubbliche o private (ormai pressoché scomparse nelle città europee in transizione) – dobbiamo sostituire un “masterprogram” consapevolmente temporalizzato e adattivo, capace di comporre una visione complessiva attraverso l’attuazione di visioni parziali, capaci di azioni tempestive e temporanee ma che abbiano la forza generativa di nuovi futuri, che sappia attivare processi auto-poetici e auto-sufficienti.

Manifesto_CS3_lab16Ho definito questo processo Cityforming © Protocol, un protocollo progettuale – non una norma o un modello – in grado di riattivare per stadi successivi il metabolismo di un’area partendo dalle sue componenti rigenerative latenti, attivando molteplici cicli ad intensità crescente per creare un nuovo ecosistema urbano sostenibile nel tempo. Il Cityforming agisce per fasi incrementali e adattive necessarie a produrre risultati parziali che diventano la base generativa della fase successiva. Il Cityforming, procedendo attraverso le fasi della colonizzazione, del consolidamento e dello sviluppo, produce il necessario “ossigeno urbano” per la formazione di un ecosistema adeguato a generare un nuovo metabolismo che riattivi i cicli inattivi, che riconnetta quelli interrotti o che ne attivi di nuovi, più adeguati alla nuova identità dei luoghi.

Cosa significa adottare un approccio sistemico creativo e integrato tra le competenze nell’ambito della pianificazione e progettazione urbana?

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Ho scritto un libro intitolato “Re-immaginare l’urbanistica” (Re-imagining Urbanism, List, 2014) non per proporre una nuova parola-totem o un nuovo mantra capace di produrre effetti al solo nominarlo.
Credo, invece, che l’innovazione in urbanistica richieda un rigoroso esercizio di volontà, responsabilità e competenze che si fondino su un “buon governo” delle città – sempre più spesso dovendo gestire sia la contrazione che la metropolizzazione – basato su un nuovo pentagramma: visione, strategia, progetto, regole e comunità. Un pensiero differente e una filiera di azioni per i tempi nuovi, capaci di re-immaginare il progetto urbano, territoriale e paesaggistico. Dobbiamo tornare a guardare il territorio come risorsa generativa e non solo come spazio di consumo, attingendo alle energie del nuovo magma partecipativo in cui la questione giovanile, i lavoratori della conoscenza e le economie della sostenibilità si miscelano producendo un nuovo territorio che dobbiamo imparare a esplorare, a interpretare, a regolare e a progettare anche con la capacità di affrontare le nuove forme dei conflitti – sociali, culturali, etnici, ecologici, funzionali e sempre più spesso economici – che trovano nella città genesi ed eruzione.
Metamorfosi è la nuova e potente parola chiave del futuro. Numerosi segni ce la facevano intravedere, molteplici indizi ci indicavano la sua strada durante gli anni propulsivi della globalizzazione, ma li abbiamo ignorati in modo anestetico. Oggi invece saremo costretti a praticarla durante gli anni recessivi della crisi e le società del futuro – e le loro città sempre più smart, creative e green – dovranno agire entro uno stato di perturbazione che non sparirà presto, e che ci lascerà profondamente modificati. Dovranno essere in grado di riattivare i propri capitali (spaziali, relazionali e umani) guidate da una urbanistica in grado di garantire nuove forme di convergenza tra sostenibilità culturale economica, ambientale e sociale sia attraverso l’adozione di rinnovate visioni di futuro, sia attraverso l’uso di nuovi paradigmi ma anche attraverso la qualità delle decisioni e l’efficacia dei progetti.
L’impatto dei paradigmi ecologico, tecnologico e creativo non produce effetti solo sulle nostre azioni sociali in relazione con l’ambiente, ma interviene profondamente sui metodi e sul modo di pensare delle discipline che forniscono i principi e gli strumenti per governare e modellare l’ambiente in cui viviamo.
Gli scenari tumultuosi che ci circondano e l’orizzonte in rapido mutamento che abbiamo davanti non ci permettono di aspettare più nel cogliere la sfida a re-immaginare e ripensare l’urbanistica, perché nelle nostre orecchie suonano profetiche – e sono un potente viatico per l’azione – le parole di Bob Dylan, poeta per un mondo nuovo:

Come gather ‘round people wherever you roam

And admit that the waters around you have grown

And accept it that soon you’ll be drenched to the bone

If your time to you is worth saving

Then you better start swimming or you’ll sink like a stone

For the times they are changing.    

Un’esperienza positiva di approccio creativo alla città che possa essere di esempio anche per altre.

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Sono passati solo sei anni da quando è nata quella piccola ma potente stella nell’universo della creatività che si chiama FARM Cultural Park a Favara. Da quella scintilla creativa scoccata nei Sette Cortili dalla visione e passione di Andrea Bartoli e Florinda Sajeva, da quel vero e proprio evento cosmico nell’universo dell’arte contemporanea, del design,  dell’architettura, dell’innovazione sociale è stata generata un’energia vitale che ancora oggi non si arresta, anzi sta producendo importanti effetti non solo a Favara, ma in molte altre parti della Sicilia e nel mondo. La notorietà di FARM, e Favara, oggi non ha confini, ed è una delle prime mete mondiali per il turismo culturale e per i flussi degli innovatori. Non è un caso che uno dei recenti Google Camp dedicati ai future trends abbia tenuto una delle sue sessioni proprio qui. Ma, nello spirito della nostra navigazione, non è della energia creativa di Farm che voglio parlare – è stato fatto molte volte – ma vorrei guidarvi nel seguire l’emissione delle onde gravitazionali della sua potenza per rintracciare gli esiti estesi, duraturi, profondi che quel luogo, quelle persone e le tante che si sono aggiunte in un progetto sempre più corale hanno prodotto in soli sei anni. Ai Sette Cortili, il cui programma evolutivo non si è mai fermato, trasformandosi ed estendendosi in continuazione, si sono aggiunti altri epicentri di creatività che hanno arricchito l’armatura culturale di Favara. La Valle degli orti urbani, progettata da Giacomo Sorce e Manfredi Leone, che ha riattivato lo straordinario paesaggio vegetale del grande vallone ricucendo una parte di città che dal Castello arriva all’ex Macello, oggi trasformato in sede per attività didattiche e sperimentali – il Favara Future Fab – grazie ad un accordo con il Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo. Palazzo Cafisi, splendida dimora padronale, si trasforma in un laboratorio di performance artistiche in cui tradizione e innovazione si fondono generando esperienze immersive per il visitatore. Da un gruppo di abitazioni in centro storico è nato, dal genio di Lillo Giglia, Quid VicoloLuna, un luogo ibrido tra galleria d’architettura, ristorante, spazio espositivo e centro culturale che offre un’esperienza culturale amplificata e che dopo meno di un anno ha già generato emulazioni negli edifici limitrofi, proponendosi anche come spazio pubblico della città. Ma non solo l’arte viene sospinta dalle onde gravitazionali generate da Farm, perché anche il tessuto imprenditoriale ha ricevuto uno straordinario impulso. La piazza Cavour è oggi un pullulare di luoghi del gusto che puntano sulla qualità dello spazio e del cibo in una esperienza sinestesica imperdibile. Il Belmonte è un design hotel che completa l’esperienza artistica di Farm e che a breve, grazie allo spirito imprenditoriale di Antonio Alba, inaugurerà una nuova sede spettacolare nel Palazzo Piscopo sapientemente restaurato dallo Studio Architrend con coraggiosi inserti di contemporaneità, come un nuovo volume che funge da corpo scala ma che si candida a diventare un nuovo landmark urbano. A Favara niente è come vi aspettate che sia. Il negozio di abbigliamento Livreri If è anche uno spazio culturale, una piazza diventa, grazie a Pino Guerrera, una casa sull’albero che potete affittare su Airbnb, uno slargo viene riattivato da ragazzi che affermano la volontà di riscatto, un giardino diventa una cucina all’aperto a chilometro zero. Zighizaghi, progettato da Francesco Lipari e Giuseppe Conti, è un nuovo giardino urbano multisensoriale che si fa  piazza pubblica attraverso la cultura del dono tipica dell’oriente. E poi il Castello di Chiaramonte, che da silente spettatore del declino oggi è protagonista di una rinascita creativa.

Questo è quello che io chiamo l’F Factor, il fattore Favara che sta perturbando in maniera positiva non solo un territorio, ma l’intero sistema della rigenerazione urbana. Un fattore composto da luoghi, quelli che vi ho descritto insieme ad altri, fatto di talenti, distribuito nelle persone che credono al progetto e che lo raccontano in giro per il mondo. Un fattore Favara che si rispecchia nei volti delle persone, delle famiglie – tutto è nato da una famiglia – che animano questa avventura, e che saranno i protagonisti del prossimo Children’s Museum per educare i bambini alla bellezza. Un fattore che si identifica non solo con i talenti, ma risiede soprattutto nella loro capacità di tessere reti, di stimolare emulazioni, di costruire un ecosistema della creatività e dell’innovazione sociale che oggi è indispensabile per ripensare il destino dei centri urbani.

Un laboratorio per i bambini sulla resilienza: quali metodi utilizza per coinvolgerli sul tema?

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Il ciclo di lezioni su Opensource Urbanism che curo all’interno di SOU la School of Architecture for Children istituita entro FARM intende seguire un sogno racchiuso nell’acronimo LATU (Lower Age To Urbanism), cioè “abbassiamo l’età per l’urbanistica” per rendere la sensibilità , l’approccio e le tecniche dell’urbanistica una componente della nostra vita quotidiana.
L’urbanistica non deve essere solo una disciplina tecnica che richiede adeguata preparazione ed efficaci strumenti, ma deve diventare un modo collettivo di vedere la città e il territorio, il paesaggio e l’ambiente, le case e gli spazi pubblici, i trasporti e le imprese. Il ciclo di Opensource Urbanism vuole attivare l’urbanista che è in ognuno di noi perché sappia contribuire a quella parte sempre più importante che è l’urbanistica collettiva e collaborativa, mettendo in condizione la comunità, fin da piccoli, di capire le conseguenze delle scelte che riguardano i luoghi di vita e di lavoro, di comprendere le alternative tra le scelte di mobilità, di valutare le migliori azioni che riguardano l’energia e i rifiuti.
Come nella programmazione informatica il software della città, l’urbanistica, non è più precompilata da una azienda e distribuita agli utenti senza possibilità di cambiamento, ma diventa un software aperto che impara e migliora dalla relazione con i suoi utenti, gli abitanti, che si arricchisce di altre parti di codice che non erano state previste, in modo da adattarsi sempre più alle esigenze delle singole comunità invece di pretendere che le persone si adattino a visioni astratte.
In questo modo l’urbanistica torna ad essere capace di aiutare le città o le
tante forme di luoghi in cui viviamo ad evolvere come organismi viventi,
poiché animati della vita dei loro abitanti, delle nostre vite.
Il metodo è quello della gaming education un insegnamento che si traveste da gioco per veicolare ai bambini concetti complessi in maniera semplice e seducente in modo che le informazioni si trasferiscano in maniera piacevole nella loro coscienza e che, applicandole giocando, diventino patrimonio naturale del loro modo di pensare.

Giorgia Less

Luca Mollica: l’IIT e l’Approccio Sinergico

 

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Ottima scienza, ma non solo. Nella ricerca scientifica con una forte vocazione aziendale, a metà fra il mondo accademico e quello dell’impresa, la buona competitività, le collaborazioni in approccio sinergico, i progetti start-up e le applicazioni a livello industriale inquadrano uno scenario complesso ed estremamente ramificato. Per capire cosa significa “fare ricerca” oggi, non è più possibile rivolgersi esclusivamente ai grandi scienziati del passato, come Albert Einstein o Rita Levi Montalcini. La domanda che ci si pone attualmente di fronte ad un nuovo progetto è: questo tema è interessante, ma soprattutto è utile? In una realtà in movimento ed orientata per ragioni strategiche verso la settorializzazione, il Dott. Luca Mollica ci restituisce la sua esperienza come ricercatore: una storia che promuove l’eccellenza di un centro fondamentale della ricerca italiana, IIT, Istituto Italiano di Tecnologia, ma non solo. E’ anche un invito, tanto per i settori di competenza quanto per i singoli che operano all’interno del sistema, a non concentrarsi solo sulla produzione di dati ma a mantenere sempre una visione d’insieme, sublimata da conoscenze trasversali. Perché questo è positivo per l’approccio sistemico? Perché ammette la curiosità come motore propulsore, alimenta la conoscenza, stimola la creatività e crea nuovi orizzonti professionali. In definitiva, consente di recepire informazioni derivanti da altri sistemi, restituendo alla fine una misura del campo in cui si lavora ed in cui si vive. E’ la possibilità di tracciare una mappa e dire: io sono qui.

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Come nasce e qual è la mission di IIT? 

IIT è nato da un progetto governativo del 2003 che prevedeva in Italia la nascita di un istituto dedicato al trasferimento tecnologico dalla ricerca di stampo accademico all’impresa con finalità e ricadute applicative.
L’Istituto Italiano di Tecnologia nasce come fondazione di diritto privato e ha una struttura ramificata sul territorio: tra questi il quartier generale che risiede a Genova, due centri a Milano, uno a Roma, uno a Torino, uno a Napoli, uno a Ferrara ed uno a Trento. La mission di questi istituti per l’eccellenza scientifica è di trasferire risultati del lavoro di ricerca scientifica che si svolge al loro interno verso progetti ad alto impatto tecnologico con una potenziale industriale.
Sebbene sia un ente statale (afferente al Ministero del Tesoro), IIT ha una struttura di tipo aziendale che si richiama a quella degli istituti “Max Planck” tedeschi. In senso più’ generale IIT vuol porsi all’interno della struttura della ricerca scientifica e tecnologica del paese come un istituto in grado di assumere competenze che siano allo stesso tempo in costante dialogo ma ortogonali come finalità con quelle dell’Università da un lato e del CNR dall’altro, come già accade in altri paesi la cui ricerca ha un ruolo di primo piano a livello globale (USA e Germania).
Relativamente alla mia attività e al mio settore faccio parte di una rete di ricercatori che si chiama Compunet che ha lo scopo principale di usare tecnologie di simulazione numerica per affrontare problemi ad alto impatto scientifico e tecnologico, riguardanti principalmente le bioscienze e le scienze dei materiali. Compunet è una rete diffusa su tutta Italia, con sede principale a Genova ma ramificata su tutto il territorio, e prevede al suo interno contratti per il dottorato di ricerca o per l’attività post-dottorale di ricerca che abbiano come obiettivo di sviluppare questa tipologia di progetti. Inoltre la rete si configura come una sorta di dipartimento trasversale per avere non solo risorse ma anche competenze di calcolo. Per fare un esempio, io mi occupo di interazione tra farmaci e proteine, ma sono affiancato (tra gli altri) da un collega che si occupa di Scienze dei Materiali dal punto di vista computazionale: due filoni della chimica fisica che però parlano a mondi fra loro completamente diversi.

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IIT è una realtà in evoluzione. Come definirebbe in poche parole il proprio ruolo all’interno dell’Istituto e del progetto di ricerca “Compunet”?

IIT rappresenta un work in progress: io sono arrivato a Genova quando la struttura dipartimentale era più basata sulla sede genovese, mentre ora si sta avviando verso una fase di transizione. In Compunet ho la fortuna di lavorare in senso trasversale con il compito di creare la massima visibilità, efficacia e capacità di creare networking con altri gruppi, dalla collaborazione individuale a quella istituzionale.
In questo momento la struttura di IIT sta cambiando ed estendendosi, in quanto è prossima la creazione del polo tecnologico a Milano, Human Techopole (HT), che si estenderà su tutto il territorio dell’area milanese dell’ex-Expo. Questo progetto, che dovrebbe durare trentacinque anni nella sua fase di crescita e stabilizzazione, si concentra su tutto ciò che compete la crescita e lo sviluppo delle tecnologie volte a migliorare le condizioni di vita umane: cibo, salute, nuove tecnologie, nuovi materiali e robotica.

In che modo coesistono competenze così diverse in termini di collaborazione interna ed esterna all’Istituto? Quali sono i suoi punti di forza?

All’interno di IIT esistono diverse competenze. Per quanto riguarda il mio settore di afferenza, la molteplicità tematica deriva dalla storia del Dipartimento a cui faccio capo, detto in origine D3 (Drug, Discovery and Developement) che si configurava come realtà unica assieme a due altri assi tematici (oltre alla sezione computazionale), ovvero la chimica di sintesi e la farmacologica.
Oggi queste realtà sono state rese in parte indipendenti fra loro per ragioni in larga misura strategiche, ma queste competenze sono tuttora in costante collaborazione: in un mondo altamente specializzato come quello della ricerca scientifica la comunicazione è essenziale.
In termini di collaborazione esterna gioca un ruolo importante cercare il collaboratore “giusto”, ossia in grado di complementare le proprie competenze su filoni di ricerca effettivamente appealing sia dal punto di vista scientifico che economico: IIT in tal senso si configura come un partner che può offrire il meglio per la disponibilità sia tecnologica che finanziaria.
Esiste all’interno di IIT una grande capacità di creare buona scienza e applicazioni di ottimo livello, ma non solo: IIT ha una capacità unica in Italia di creare start-up. Di una di queste in particolare sono anche collaboratore: si chiama BiKi (Binding Kinetics) Technologies ed è nata formalmente un anno fa con lo scopo di fornire alle aziende un software (BiKi per l’appunto) che permette di manipolare informazioni relative alla struttura delle molecole e di creare dei modelli previsionali per mezzo di interfacce intuitive e veloci. Inoltre ove necessario e’ in grado di fornire anche il miglior know-how disponibile per lavorare in tal senso in modo ottimale.

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L’approccio sistemico in tre parole: crescere, velocizzare, semplificare. Dove e perché questi concetti costituiscono un vantaggio?

L’approccio sistemico consiste nell’interpretare correttamente i bisogni del cliente, delle aziende o dei collaboratori (sia interni che esterni), in modo da approntare la strategia migliore in funzione del progetto.
Spesso nel recente passato si sono utilizzate tecnologie lente, onerose o poco funzionali semplicemente perché rappresentavano la migliore offerta disponibile al momento (ad esempio per un rapporto qualità/prezzo vantaggioso).
Il nostro approccio è molto più semplice, ad esempio nell’ambito delle collaborazioni di cui si è parlato poc’anzi: ovvero, si è preferito utilizzare una tecnologia più semplice, rispetto al miglior stato dell’arte possibile attualmente, ma applicata “intelligentemente” in modo tale da estrarre informazioni utili anche senza un’estrema finezza di analisi o preparazione o di approccio sperimentale o di calcolo. Questo perché l’efficacia e la velocità d’uso di un metodo corrisponde alla semplicità d’uso da parte dell’organizzatore.
Cerchiamo inoltre preferenzialmente collaboratori che sappiano dare un feedback sul nostro operato: l’industria, che è un grande contributore in quanto potenziale primo utilizzatore, e l’accademia, dove l’utilizzo avviene con ritmi leggermente più bassi e con priorità differenti ma con maggiore cura di dettagli significativi per valutare la bontà dei nostri metodi.
Crescere è in linea di principio facile, in questo mondo della ricerca, sebbene poi le condizioni per farlo possano rivelarsi strada facendo avverse. Nel caso di una start-up, per esempio, crescere significa avere più contratti di anno in anno, in modo da avere una rete di contatti (il famoso networking!), denaro da investire nelle persone che possono lavorare nell’azienda e un accrescimento del know-how. Parlando più personalmente e della dimensione del singolo, invece, penso che ‘crescere’ significhi avere la capacità di creare un nuovo network collaborativo tale da ampliare l’orizzonte culturale e creare di volta in volta qualcosa di nuovo, rivolgendosi a quanti più problemi possibili, simili fra loro, ma mai uguali a quello di partenza.

Un suggerimento che darebbe a chi si affaccia al mondo della ricerca oggi.

L’IIT ha una importante componente educazionale, composta di studenti di dottorato e tesisti, che si rivela essere una risorsa fondamentale per la crescita. Muovendomi da una critica sistemica e del presente stato di salute della ricerca, in questa realtà al giorno d’oggi il rischio soprattutto per un nuovo arrivato è l’eccessiva settorializzazione, ovvero diventare un generatore di dati: questo aspetto ricade in primis sugli studenti (in tesi di laurea o all’interno di un dottorato di ricerca), sottraendo loro capacità critica e visione d’insieme, tagliando le ali alla loro curiosità perché “il tempo e’ sempre troppo poco, si deve fare in fretta”. Meglio sarebbe riuscire a progettare, pensare e studiare prima di farsi influenzare troppo dalla pressione della produzione … certo senza perderla di vista!
Il consiglio che do a chi si avvicina al mondo della ricerca è prima di tutto capire che cosa vuol dire fare ricerca oggi, in un’epoca di trasformazione epistemologica ed economica. Il suggerimento è di impegnarsi in un tema complesso, con la fortuna di avere un supervisore/tutor cosciente della difficoltà del progetto che non pretenda un risultato troppo rapidamente; inoltre penso sia importante riuscire a ritagliarsi sempre un tempo per ragionare sulla sua natura del problema “out of the box”, in maniera più completa possibile. Un esempio posso trarlo dalla mia esperienza: io mi occupo di simulazioni al calcolatore di biomolecole e loro interazioni e di spettroscopia molecolare e, nonostante sia un chimico fisico di formazione, ho però scelto di conseguire un dottorato di ricerca in biologia cellulare e molecolare: durante questo periodo di formazione ho capito che, ottenendo informazioni da altri sistemi e da altri settori scientifici, riuscivo a comprendere esattamente la vastità e complessità del campo in cui mi sto tuttora muovendo.
IIT ha una forte necessità di interfacciarsi con una realtà estremamente applicativa: è il modo contemporaneo di fare ricerca, l’arte per l’arte, ovvero fare qualcosa “per la bellezza del gesto”, nel mondo di oggi non ha più senso. Esiste un commitment che pretende risposte precise e con una certa finalità, sia nell’incipit di un progetto, sia nella richiesta di un finanziamento per la ricerca. Non è più sufficiente solo l’interesse, si rende necessaria l’utilità, ovvero se il target è appealing.

“Thinking out the box”: ci racconti un’esperienza positiva del percorso che l’ha portata a comprendere l’importanza di un approccio trasversale.

Potrei raccontare di come sono arrivato in IIT. Dopo la tesi di laurea su un argomento afferente alla Scienza dei Materiali (superconduzione di materiali inorganici), durante il periodo di servizio civile presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, mi sono appassionato alle bioscienze. In seguito ho lavorato al San Raffaele per sette anni, dove ho cominciato ad occuparmi di spettroscopia molecolare e di simulazioni al calcolatore.
Quest’ultima esperienza era una sfida in cui si partiva da zero: il mio capo dell’epoca, la dottoressa Giovanna Musco, ricevette uno “starting grant”di Telethon per l’avviamento della attività di un laboratorio di ricerca. Quando ho cominciato quindi, in laboratorio eravamo io, il mio capo ed un tecnico e non avevamo altro che due scrivanie ed un bancone per lavorare! In breve tempo abbiamo cominciato a crescere, il gruppo si è ampliato, ci siamo spostati in un’area più grande ed abbiamo ottenuto risultati decisamente molto buoni. Dopo sette anni terminavo la mia esperienza e ho deciso di andare in Francia (a Grenoble) per occuparmi sempre di spettroscopia molecolare; nel frattempo avevo cominciato a lavorare alla modellistica molecolare, quindi mi dividevo tra misure e modelli numerici per interpretarle, dedicando a questi ultimi sempre maggior tempo fino a farne la mia attività principale o quasi unica di ricerca. Dopo quattro anni mi sono rivolto all’IIT ed ho fatto domanda per fare parte di Compunet: il mio era un curriculum vitae “ibrido”, in quanto avevo competenze trasversali, e pensavo di esserne svantaggiato. Tuttavia, quando sostenni il colloquio notai invece un forte interesse verso il rapporto tra la mia attività sperimentale del passato e la mia attività computazionale del presente, e verso il metodo che avrei utilizzato per lavorare sui dati: quando fui assunto, compresi dunque che il valore aggiunto non stava nella specializzazione ma nella capacità di mettere in relazione due mondi professionalmente distanti, ponendo le domande giuste al sistema e bussando alla porta del vicino che sa porre domande migliori delle tue. In sostanza sono arrivato sulla scorta di un disegno che vuole il sincretismo come filosofia dell’Istituto. Ed e’ una filosofia di vita e di fare ricerca che adotto sempre in ogni cosa di cui mi occupo, nel mio lavoro ma non solo.

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A quali progetto si sta dedicando in questo momento? Quali sono gli obiettivi futuri?

Attualmente mi sto concentrando su due diversi aspetti della chimica fisica delle biomolecole: la prima è la capacità di interpretare i dati sperimentali di velocità ed energetica di rilascio di molecole dalle proteine di interesse farmacologico. Nel 2015 e nel 2016 abbiamo pubblicato due lavori in cui abbiamo mostrato la capacità di implementare ed utilizzare un modello di calcolo del rilascio delle molecole in modo tale da ottenere un ranking corretto.
In tal senso è degna di nota una curiosità relativa alla comunicazione alla comunità scientifica mondiale dei nostri dati: essa incontra soprattutto all’inizio una certa qual “resistenza” da parte del pubblico accademico, che considera in qualche misura troppo semplici i nostri metodi, nonostante portino a dei risultati, mentre la committenza (potenziale o reale) industriale apprezza proprio la rapidità di utilizzo a dispetto del minor grado di complicazione. Questo schema è legato ovviamente alla natura dei due ambienti.
Il secondo tema su cui sto lavorando è la capacità di “parlare” direttamente ai dati sperimentali. Normalmente gli scienziati, sperimentali, teorici e “in silico” (modelli al calcolatore), non comunicano se non in modo qualitativo: lo scienziato sperimentale ottiene un risultato, mentre il teorico ottiene un risultato che potrebbe spiegare il dato sperimentale.
L’obiettivo che mi sono posto (e che tento di proseguire da anni in varie forme) è quello di riuscire quantitativamente a mettere in relazione il modello con il dato sperimentale, attraverso tecniche di simulazione, ovvero estraendo dalla modellistica un valore quanto più vicino ai dati sperimentali. È una questione complessa ma molto utile perché consente di essere estremamente analitici e di trovare il giusto collante fra le due parti.

 

Giorgia Less

La Nuvola – Nuovo centro congressi all’EUR – Inaugurazione il 29 ottobre 2016

Sedici anni dall’approvazione del progetto e nove dall’apertura del cantiere, si avvicina la data dell’inaugurazione della “Nuvola” di Fuksas all’Eur.

Il nuovo Centro Congressi di Roma aprirà le porte per la prima volta sabato 29 ottobre 2016, mentre da gennaio del 2017 sarà in grado di ospitare eventi di varie tipologie, da convegni ed esposizioni fino a mostre e spettacoli.

aafec4ae-642d-49ea-93c0-77ca3242df0bA pochi giorni dalla effettiva apertura al pubblico, la struttura è già entrata a far parte dell’immaginario collettivo da anni: una nuvola traslucida in fibra di vetro siliconata e acciaio, sospesa dentro un parallelepipedo trasparente, capace di mettere a nudo la contrapposizione fra la fantasia delle forme e la stabilità delle strutture.

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Nuovo Centro Congressi – La Nuvola – Planimetria, livello Auditorium. EUR S.p.A.
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Nuovo Centro Congressi – La Nuvola – Planimetria. EUR S.p.A.

Tre organismi distinti danno forma al nuovo centro congressuale, che si sviluppa su una superficie complessiva di 55 mila metri quadrati: la struttura parallelepipeda in vetro e acciaio (denominata la “teca”) è uno spazio protetto alto 39 metri che contiene la “nuvola”, l’organismo centrale caratterizzante il progetto. Quest’ultimo, collegato al volume parallelepipedo tramite passerelle sospese nel vuoto, rappresenta un sistema indipendente dal resto del centro e non interferisce con le attività
congressuali ed espositive che si svolgono nelle altre aree dell’edificio: essa ospita l’Auditorium di 1800 mq da 2200 posti.
Infine un albergo, denominato la “lama”, si sviluppa indipendente per un altezza complessiva di 56 metri, conferendo complessivamente all’intervento un’identità e riconoscibilità a livello urbano.

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Nuovo Centro Congressi – La Nuvola – Sezione longitudinale. EUR S.p.A.
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Nuovo Centro Congressi – La Nuvola – Sezione trasversale. EUR S.p.A.

Il concorso internazionale per la progettazione del nuovo Centro Congressi Italia era stato indetto nel 1998 dall’Ente Eur e nel febbraio 2000 aveva visto vincitore l’affermato architetto Massimiliano Fuksas, una delle personalità più conosciute e controverse del panorama architettonico internazionale.
Nato a Roma nel 1944, dopo un periodo in Austria, Fuksas ha frequentato il liceo nella città natale, dove ha avuto modo di conoscere alcuni fra i più importanti esponenti della cultura italiana, fra cui Pasolini, Asor Rosa, Caproni e più tardi Giorgio De Chirico, che lo introdusse nel suo studio in Piazza di Spagna: questa frequentazione lo spinse ad iscriversi alla Facoltà di Architettura dell’Università di Roma La Sapienza. Quando si laureò nel 1969, aveva già aperto un proprio studio nella capitale, GRANMA, e poco dopo la sua fama superò i confini italiani con la palestra per il Comune di Paliano, pubblicata dalla rivista francese Architecture d’Aujourd’hui.

Dopo il successo, partecipò a Parigi ad una esposizione di progetti di giovani architetti europei, tra i quali Rem Koolhaas e Jean Nouvel. Nel 1989 fondò uno studio a Parigi, nel 1993 uno a Vienna e nel 2002 uno Francoforte, dove ha lavorato grazie al preziosissimo aiuto della moglie Doriana O. Mandrelli, responsabile di Fuksas Design.
Dal 1994 al 1997 si occupò soprattutto dei problemi delle grandi aree urbane concentrandosi sulla realizzazione di opere pubbliche.
Nel 2009 progettò gli store di Armani a New York e Tokyo ed un anno più tardi viene insignito della Legion d’onore. Fece scalpore una sua dichiarazione dello stesso periodo, poco dopo la demolizione dell’eco-mostro di Punta Perotti, sulla quale si espresse sostenendo che

“molti altri edifici andrebbero demoliti, in quanto in Italia ci sono all’incirca 9 milioni di palazzi abusivi, tra i quali, senza alcuna ombra di dubbio, spiccano lo ZEN di Palermo di Vittorio Gregotti e Corviale di Roma di Mario Fiorentino”.

Nel corso della sua carriera ha ricevuto molti premi internazionali, tra i quali il Vitruvio Internacional a la Trayectoria (1998), il Grand Prix d’Architecture (1999) e l’Honorary Fellowship dell’American Institute of Architects (2002) ed il Premio Ignazio Silone per la cultura (2011).
Nel 2012 il suo studio di Roma “Massimiliano e Doriana Fuksas Design”, gestito insieme alla moglie, risulta il terzo per fatturato, dopo quello di Antonio Citterio e Renzo Piano, con 8 milioni e 400 mila euro.

Giorgia Less