Il Diritto di Contare: per andare oltre ogni limite imposto dagli altri

 

America, anni sessanta. È il tempo in cui gli americani rincorrono i russi per la conquista dello spazio. Ma è anche il tempo in cui persiste e prosegue la segregazione raziale e la contrapposizione, a qualsiasi livello, dei bianchi e dei neri, uomini e donne.
Al centro Nasa, dove vige il maschilismo più assoluto e la distinzione raziale è più che marcata, tre amiche afroamericane Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson lavorano come calcolatrici, considerate non abbastanza brave e competenti (soprattutto perchè nere) per aspirare a mansioni superiori. Così, grazie alla loro perseveranza e capacità di far valere le loro capacità, riusciranno a raggiungere inimagginabili traguardi. Katherine, straordinaria esperta di geometria analitica verrà trasferita nello Space Task Group e parteciperà in modo risolutivo al calcolo delle traiettorie di quello che sarà il volo di John Glenn, il primo uomo americano in orbita intorno alla terra e poi delle successive missioni Apollo.
Dorothy affronterà il suo supervisore – donna bianca – a viso aperto che la ritiene inferiore solo per motivi raziali diventando a sua volta la prima supervisore afroamericana, gestendo il nuovo IBM di ultima generazione che accantonerà definitivamente lavagne, gessetti e le calcolatrici umane (tutte donne di colore).
Mary testardamente e con la volontà di voler essere un ingegnere come tutti gli altri sarà, non solo, la prima donna a frequentare un corso esclusivamente per uomini bianchi ma anche la prima ingegnere aerospaziale afroamericana, ottenendo la specializzazione necessaria per la promozione e contribuendo in modo determinante alla creazione della capsula del programma Mercury.

Il diritto di contare, film di Theodore Melfi del 2016, nella versione originale ha il titolo di Hidden Figures – figure nascoste – ed è basato sul libro di Margot Lee Shetterly intitolato “Hidden Figures: The American Dream and the Untold Story of the Black Women Who Helped Win the Space Race”.
Già questo basterebbe per dare un senso più che profondo a questa pellicola, ma andiamo oltre la “semplice e dirompente” storia che c’è dietro.

Per quanto possa sembrare distante dal nostro modo di vivere oggi, dove tutto sommato siamo abituati a vicendevoli avvicendamenti tra uomini e donne e non ci interroghiamo più sulle difficoltà che ci sono dietro e il sacrificio che ha richiesto a molti o dove, ancora, siamo indifferenti (quasi) all’interrazialità che ci circonda, questo film diventa un fuoco acceso in un deserto buio.

Katherine, Dorothy e Mary con il volto rispettivamente di Taraji P. Henson, Octavia Spencer, e Janelle Monáe, accompagnate sulla scena da Kevin Costner e Kirsten Dunst, danno vita a tante donne e (pochi) uomini che hanno fatto di questa storia un principio per cui combattere, insegnando a farlo, trattenendosi sempre nei confini socialmente ammessi e Concessi ma con il dirompente desiderio e coraggio di infrangerli, a tutti i costi.
Perchè essere una donna in un ambiente esclusivamente maschile che svolge un ruolo socialmente categorizzato per uomini è difficile, ma essere una donna di colore nel periodo in cui le differenze tra bianchi e neri sono ancora troppo marcati e reali e dover combattere per la propria affermazione, è davvero straziante.

Per quanto possa sembrarci irrisorio oggi, abituati alle parità di genere – anche se troppo spesso poco applicata e riconosciuta-, una donna normalmente deve lavorare il doppio e in quel tempo una donna nera doveva lavorare dieci volte di più per vedersi riconoscere la metà del proprio reale valore. Più o meno è quello che succede ancora oggi, solo che siamo troppo distratti dall’accorgercene e, purtroppo, la linea di demarcazione della disuguaglianza e discriminazione è dissolta dal “solo” colore della pelle.

Nel film si parla di oppressione e segregazione, di categorizzazione e marginalizzazione nel mondo del lavoro, perchè già una donna ingegnere fa uno strano effetto, ma alla donna ingegnere di colore viene detto che non può davvero aspirare ad essere ciò che non può essere perchè è a-normale.
Ognuna delle tre protagoniste lotta non solo per sé ma anche per tutte le altre, riuscendo alla fine a vincere. Vincere non qualcosa di straordinario ma per quello che è giusto e che lo era anche prima, solo troppo nascosto dal pregiudizio e dalla diffidenza.

Allora qual è il senso di questo film?

Essere Donna è meravilgioso, nonostante ci sia da faticare almeno il doppio. E quello che ci insegnano le protagoniste di questo film è che essere sé stessi è la miglior cosa che si può fare per raggiungere non solo i nostri obiettivi, ma per farci tutti strumenti per il meglio, nostro e degli altri.
Puntare al meglio, in ogni situazione e sfruttando a nostro favore qualsiasi cosa ci sia da fare, dimostrando non tanto di esserne in grado, ma esplicitando i nostri talenti e facendo in modo che, senza paura alcuna, le persone che ci stanno intorno non ci guardino tanto per il nostro essere, ma diano il giusto perso alle nostre capacità e ai nostri talenti che poi fanno la differenza. In tutto.

E se per caso vi venisse il dubbio che, in fondo, un film che parla degli anni sessanta è assolutamente lontano dai nostri giorni e dalla storia che quotidianamente viviamo, vi invito caldamente a fare due cose: la prima, oggi più che mai, leggete le notizie di cronaca che arrivano dagli esteri, la seconda, osservatevi intorno in ogni ambito lavorativo o, anche, familiare per rendervi conto di quanto ci siano ancora troppe differenze.

Solo allora capirete il vero senso del sacrificio non solo di queste Donne, ma di tutti coloro – Donne, Uomini, giovani, bambini ed anziani – che hanno sacrificato molto di sè per il bene di tutti in qualsiasi ambito e di quanto, a volte, essere visionari non per forza sia una cosa da sottovalutare (nel giorno in cui si accingeva a partire la prima missione spaziale con una navicella privata abortita per il mal tempo).

Francesca Tesoro

Wonder: il delicato e incisivo coraggio di un Bambino

Augustus “Auggie” Pullman è un bambino di dieci anni che non è mai andato a scuola, istruito e protetto amorevolmente dalla sua famiglia. Ma all’alba della prima media lo aspetta una scelta ardita spinto dall’infinito coraggio dei genitori: andare in una scuola vera, con bambini reali, come un bambino normale.
Auggie è un bambino senazionale, che adora Halloween e sogna di fare l’astronauta, innamorato della scienza, sempre in compagnia del proprio casco da astronauta che lo protegge dal mondo reale e nasconde agli occhi del mondo la sua Sindrome di Treacher Collins. Supportato dalla famiglia prima e, man mano, dai suoi coetanei che si dimostreranno amici veri o ostacoli crudeli, vivrà l’anno più bello della sua vita (e anche di chi gli sta accanto), facendo del proprio meglio per dimostrare l’autentica grandezza del suo essere un bambino come tutti con un immenso carisma e una profonda forza interiore che gli permetteranno di superare ogni ostacolo.

Wonder, film del 2017 con la regia di Stephen Chbosky e con un cast di tutto rispetto che vede tra i protagonisti Owen Wilson e Julia Roberts, tratto da un romanzo di R.B. Palacio, ha ottenuto una candidatura agli Oscar e una ai BAFTA, nonché tre candidature ai Critics Choice Award.

Pellicola a metà tra il drammatico e il family-film, è un delicatissimo ed emozionante feel-good movie sulla tolleranza e sull’umanità, che ci ricorda di praticare la gentilezza ed accogliere le difficoltà di chi ci sta intorno e di noi stessi, in primis. Con toni gentili, scene sempre lineari e mai – soprattutto – propriamente drammatiche ma riconducibili alla vita di tutti noi, Wonder è la storia corale di tanti piccoli eroi.

Un bambino che desidera solo essere considerato un ragazzino di dieci anni come gli altri, ma con la (diversa) capacità di interrogarsi e interrogarci sul valore che diamo alle relazioni e sul nostro modo di guardare gli altri, in grado di affrontare l’ostinato bullismo scolastico che lo fa sentire e lo considera un diverso, l’intreccio delle prime vere amicizie e lo scontro con i primi nemici, mai veramente tali, che si incrontrano nella vita.

Una madre che, prima, mette in stand-by sé stessa per proteggere ed educare suo figlio, per non farlo mai sentire non all’altezza del mondo e nel mondo che lo aspetta oltre la porta, primo ed unico soggetto di tutte le sue illustrazioni e che, poi, di riflesso al coraggio di Auggie, torna a prendere in mano la propria vita terminando il suo – secondo – più grande progetto della vita.

Un padre perdutamente innamorato di suo figlio che con la sua ironia, riesce sempre a mostrare il lato positivo, ad essere il punto di riferimento di tutta la famiglia e il trampolino di lancio della moglie, di Auggie e sua sorella.

Olivia, prima figlia della coppia e sorella paziente, capace di essere sempre spalla e mai peso, costante raffigurazione di esempio e un manipolo di ragazzini, ognuno con le proprie caratteristiche, che mettono in scena la bellezza e la crudeltà del mondo reale e nel quale viviamo, la capacità di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato ma, allo stesso tempo, in grado di rappresentare la capacità di fare delle scelte.

E per quanto Auggie sia solo un bambino, interpretato dall’irriconoscibile Jacob Tremblay, racchiude in sé la rappresentazione di tutti i sentimenti che normalmente ci attraversano ogni qual volta ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo o, più comunemente, di fronte ad una difficoltà.

Il terrore di iniziare, il coraggio di lasciare e di lasciarsi andare, il bisogno ancestrale di sentirsi protetti, la capacità di adattarsi e di resistere, la volontà e il desiderio di essere sé stessi senza mai confondersi tra gli altri, la tenacia e la resilienza di andare avanti nonostante tutto, il sacrificio per arrivare alla conquista dei nostri obiettivi, la bellezza di assaporare il successo, nostro e di chi ci sta accanto, in ogni situazione e ad ogni costo.

Auggie è senza dubbio un guerriero che ci insegna come la più grande opera di bene che si può fare, è nel giusto uso della forza e che se non ci piace quello che vediamo, dobbiamo solo cambiare il modo di osservare.

Senza dubbio un film da vedere, insieme, in famiglia, istruttivo, emozionante. Delicatamente incisivo per renderci migliori.

Francesca Tesoro

“Messaggio per un’aquila che si crede un pollo” di Anthony De Mello

Anthony De Mello, indiano di nascita, ha girato il mondo unendosi alla congregazione dei Gesuiti a neanche sedici anni, insegnando e studiando in diversi paesi, riuscendo così a coniugare ed allargare smisuratamente i propri orizzonti. Diventato successivamente psicoterapeuta negli Stati Uniti, ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri nel ritrovare energia nel quotidiano, ottimismo per il futuro, coraggio e conferendo un giusto valore alle difficoltà quotidiane. Integrando la sua formazione profondamente cristiana con le discipline orientali e gli studi psicologici, è diventato un maestro del pensiero positivo, considerato e seguito anche a molti anni dalla sua scomparsa, grazie alle innumerevoli pubblicazioni divenute, in brevissimo tempo, best sellers.

Messaggio per un’aquila che si crede un pollo, edito dalla Pickwick, è uno dei suoi libri più famosi, scritto in modo immediato ed umoristico, scorrevole ma mai banale, alterna a contenuti intrisi di grandi valori, storielle rappresentative della realtà e di come reagiamo ad essa, pillole di fiducia e di saggezza per migliorare sé stessi, aforismi di illuminanti per dimostrarci che il cambiamento è davvero possibile.

Probabilmente la forma delle sue opere è il fattore vincente, avendo (quasi) sempre la forma di brevi storie che contengono elementi profondamente validi ed integrati con la sapienza orientale e che possono aiutare il lettore a raggiungere il dominio di sé, rompendo i legami che ci impediscono di essere (veramente) liberi, insegnadoci in un certo qual senso ad affrontare serenamente i diversi eventi favorevoli e, ancor più, quelli avversi della vita.

Strutturato in una sequela di brevi capitoli con la forma di racconti ognuno dei quali incentrato su una determinata riflessione, l’intero libro conduce chi legge in un percorso di consapevolezza, mirando alla comprensione di sé e di quello che ci circonda, senza avere mai la pretesa di dare per assoluto ciò che, giustamente, può essere corretto per alcuni e non per altri.


Se nelle prime pagine potrebbe succedere di non capire realmente a cosa Anthony De Mello si riferisca quando parla del fatto che la maggiorparte delle persone è come intrappolata in un sonno perenne che non permette di comprendere la bellezza e lo splendore dell’esistenza umana, lasciandosi trasportare dalla lettura nei meandri di questo “percorso” si arriva ad assaporare quel messaggio di consapevolezza professato dall’autore.

Ognuno di noi ha in sé una luce che ci rende migliori di quanto pensiamo e viviamo quotidianamente, una luce che va trovata in certi casi o (ri)scoperta in altri ma che, in entrambe le situazioni, va tenuta accesa e messa a frutto, perchè “Non siete voi a cambiarvi: non è il me che cambia il me. Il cambiamento avviene attraverso di voi, in voi. Penso che sia il modo più adeguato di esprimere quest’idea. Voi vedete il cambiamento avvenire dentro di voi, attraverso di voi: nella vostra consapevolezza, esso si verifica. Non siete voi a farlo. Se siete voi a cambiare, è un cattivo segno: non durerà”. […] Assaggiare e sentire la verità, non conoscerla, ma assaggiarla e sentirla, percepirla. Quando la si percepisce, si cambia. Quando la si conosce solo nella propria testa, non si cambia”.


Questo libro, del resto, non va considerato come un oracolo nel quale trovare tutte le soluzioni possibili ed immaginabili per la nostra vita ma, piuttosto, va interpretato come uno strumento di consapevolezza per sé stessi al solo fine di comprendere in maniera non definitiva ma, sicuramente, migliore il modo in cui pensiamo ed agiamo troppo spesso influenzati dal bisogno di vincere che ci toglie la nostra abilità, esattamente come l’arciere di cui parla De Mello.

Conoscete la storia dell’arciere? “Quando l’arciere tira senza ambire a un premio particolare, ha tutte le sue capacità; quando tira per vincere una fibbia d’ottone, è già nervoso; quando tira per un trofeo dorato, diventa cieco, vede due bersagli, e perde la testa. Le sue capacità non sono andate perdute, ma il premio lo turba. Per lui è importante! Pensa più a vincere che a tirare, e il bisogno di vincere gli toglie la sua abilità”.

E non sorprendetevi, ma se ci riflettete, è esattamente così.

Francesca Tesoro

Brunello Cucinelli e la sua lettera sulle rondini

Brunello Cucinelli è un imprenditore umbro lungimirante, figlio di una famiglia contadina che non ha mai dimenticato gli insegnamenti di quando era ragazzo e “attento osservatore del mondo”, capace di creare dal nulla la sua azienda di maglieria, divenuta poi mondiale, disegnando una idea di business incentrata sulla “dignità morale ed economica dell’uomo”.
Ha fatto di Solomeo, piccolo borgo medioevale quasi abbandonato e spopolato in provincia di Perugia, l’oggetto dei suoi sogni e il (suo) grande laboratorio dei successi di imprenditore e di umanista. Lo ha restaurato, l’ ha fatto rinascere e reso fruibile liberamente ai suoi cittadini, realizzando parchi immensamente belli, recuperando tutto ciò che era abbandonato e in disuso per dargli una nuova vita, restituendo alla terra il suo valore e facendo della bellezza e del rispetto umano il cardine di quel posto, creando e diffondendo l’idea di un nuovo “Capitalismo Umanistico”, risollevando la filiera lavorativa del luogo fornendo impiego a più di trecento laboratori artigianali delle vicinanze.

Destinatario negli anni di svariati e straordinari riconoscimenti nazionali e internazionali – parliamo della nomina a Cavaliere del Lavoro e di quella di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana, della Laurea ad honorem in Filosofia ed Etica delle relazioni umane e del Global Economy Prize per aver saputo “impersonare perfettamente la figura del Mercante Onorevole ”- è rimbalzato sulle pagine internet in questi giorni per aver scritto una bellissima lettera intrisa di speranza sul ritorno delle rondini che abbiamo deciso di pubblicare e riportare in versione integrale perchè “abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo […] fatto di sensibilità, di consepevolezza, di dignità serena”.

“Solomeo, 17 marzo 2020

Chi manda le rondini? Quasi sempre, quando mi trovo fuori per lavoro, durante i primi giorni di marzo, telefono a casa, e chiedo se le rondini sono tornate a Solomeo. Lo chiedo per due ragioni: perché le ho amate fin da piccolo, e perché a volte, ho sentito dire, in alcuni paesi non tornano; magari non ci si trovano più bene, e questo mi dà un poco di timore.

Così anche in questi tempi già da qualche giorno avevo cominciato ad aspettarle, perché ci puoi rimettere l’orologio: quando è verso il quindici di marzo eccole di nuovo, con il loro gioioso garrire e armonioso volteggiare. E infatti ieri, d’improvviso, sono arrivate. Mentre ero già seduto nello studio dell’antico castello, a tu per tu con i miei pensieri mattutini, le vedo, già in pieno fervore per la caccia agli insetti, andare e venire laboriose di sotto le gronde del tetto, dove le accolgo come uno dei doni più belli del Creato. Ogni anno mi rallegro delle rondini, ma in questi momenti un po’ meno facili mi è sembrato di vedere in loro il simbolo della rinascita.

Qualche giorno fa pensavo a noi tutti come a dei naviganti. Mi piace questa immagine, perché così vedeva Dante gli uomini che attraversano la vita. In questi momenti percepiamo ancor di più la nostra natura di marinai, che come Ulisse si legano all’albero se c’è tempesta, e come Cristoforo Colombo scrutano l’orizzonte alla ricerca dei primi uccelli, divini messaggeri della madre terra.

Ogni bravo navigante sa che una barca più leggera si governa più facilmente; oggi, seguendo le regole di chi ha la responsabilità della nostra salute, ci siamo alleggeriti di tante piccole consuetudini che magari credevamo indispensabili ad un lieto vivere. Però quanto è sorprendente accorgersi che in fondo ci sentiamo più lievi, in famiglia, tra noi, una vita d’altri tempi armoniosi. Mi piacerebbe che tutti imparassimo a vedere anche nelle cose dolorose quel tanto di gioia che c’è.

Nella sofferenza di oggi vi è anche il bene della reazione morale che ci renderà migliori, e può darsi che domani, quando il ricordo scivolerà via insieme alla sofferenza, ripensando a questi giorni, rifletteremo, con Aristotele, che anche le calamità hanno un’anima e possono divenire maestre di vita saggia.

Amabilissimi amici naviganti, che insieme a me avete visto nascere ed animate ogni giorno con il vostro temperamento geniale la bella realtà della nostra impresa, mi piacerebbe che riusciste a governare la barra del vostro vascello, proprio come io da ragazzetto riuscivo a tener diritta la stegola dell’aratro, con mio padre che felice ammirava quei solchi dritti, incantato dalla loro bellezza.

Mi piacerebbe che riconoscendo la verità dei provvedimenti prescritti dai nostri stimatissimi responsabili dell’attuale crisi, persone di Scienza, di Governo, Strutture Sanitarie, li osservaste con disciplina paziente. Mi piacerebbe che foste consapevoli ma non apprensivi; vorrei che in voi la certezza del ritorno alla vita di sempre fosse viva.

Ci sono stati, in ogni parte del mondo, tempi e accadimenti ben più penosi di quelli attuali; però sono tutti trascorsi. Passano le grigie nuvole e lasciano al cielo, di nuovo libero, lo spazio per accogliere le rondini; e vedete, noi non sappiamo chi le mandi, ma eccole, le rondini sono già arrivate.

Brunello”

Francesca Tesoro

Kung-Ku e l’arte di passare all’azione: supera le tue paure, agisci come uno shaolin di Bernhard Moestl

In un periodo come questo che tutti stiamo vivendo, ognuno con le proprie difficoltà, le proprie paure e la sensazione che i propri limiti stiano per prendere il sopravvento facendoci perdere la lucidità e la nostra normale routine, abbiamo scelto di presentarvi il libro di Bernhard Moestl, “Kung-Ku e l’arte di passare all’azione: supera le tue paure, agisci come uno shaolin” edito dalla Feltrinelli.

Per quanto possa sembrarvi un controsenso o qualcosa di estremamente lontano da noi, vi posso assicurare che questo libro può diventare una buona àncora di sopravvivenza ma soprattutto un ottimo strumento per riuscire ad attuare in noi un cambiamento che potrebbe accompagnarci per il resto della nostra vita e, ovviamente, aiutarci a superare con serenità questo momento.

Bernhard Moestl, specializzato in consapevolezza e leadership, è diventato famoso per le sue conferenze e seminari internazionali, seguitissimi, e per il suo essere un esperto business coach.
Dopo aver vissuto per molti anni in Asia convivendo con i monaci Shaolin, ha fatto del loro stile di vita quotidiano e del loro modo di pensare una chiave applicabile alla vita di tutti i giorni.
Questo suo bagaglio di conoscenza è stato da lui stesso riportato in diversi libri, ognuno dei quali si concentra su un argomento specifico, diventando così uno strumento di piena attuazione per chi, per caso o volontariamente, si è ritrovato a leggere i suoi scritti.

“Kung-Ku e l’arte di passare all’azione: supera le tue paure, agisci come uno shaolin” è il libro che parla e ci indica la via del cambiamento, che oggi appare attuale come non mai.
Generalemnte, siamo incastrati nella sensazione di vivere in un mondo eccessivamente accelerato dove il cambiamento ci spaventa e ci fa convivere con la paura di non riuscire a stare al (suo) passo. In questo momento, probabilmente, sentiamo la stessa paura dovuta invece alla necessità di vivere ritmi estremamenti lenti e decisamente fuori dalla nostra ordinaria vita (almeno per la maggiorparte di noi).
Allora questo è il momento giusto in cui avere questo libro tra le mani, leggerlo, praticarlo – come suggerisce Bernhard Moestl- attraverso un quaderno e una penna che vi accompagnino durante questo processo di cambiamento. Effettivamente, una volta terminato il libro, scorrendo le pagine del quaderno che avrete scelto come compagno di viaggio, vi renderete conto di quale percorso sarete riusciti a mettere in piedi rispondendo alle domande che lo stesso autore vi proporrà durante la lettura.

Il libro del resto non è un “semplice libro come tutti gli gli altri” ma è uno strumento che vi permetterà di acquisire consapevolezza del modo di pensare e che, normalmente, vi trattiene dal cambiare, mostrandovi come affrontare (ogni) cambiamento che vi potrebbe spaventare.
In fondo, anche se non ne siamo profondamente consapevoli “o subiamo o siamo gli artefici del cambiamento” e chi sceglierà la seconda possibilità non avrà di certo a disposizione tutta l’eternità per mettere in pratica il cambiamento che si realizza solo se siamo consapevoli che tutto parte dal momento presente. Questo perchè il cambiamento dura esattamente l’istante esatto in cui decidertete di cambiare il modo di fare qualcosa e non è sufficiente da solo a determinare il reale cambiamento nel nostro modo di essere o comportarci con noi stessi e con gli altri.

Se deciderete di affrontare questo viaggio accompagnati dal libro di Bernhard Moestl e da un quaderno ed una penna, ovviamente, riuscirete ad attraversare e praticare gli otto passi e gli altrettanti capitoli che parlano del cambiamento e vi insegneranno a metterlo in pratica, rendendovi conto di quanto il tempo dedicato a voi stessi attraverso il libro, vi abbia portato su una nuova strada.
Saranno l’ignoto e la conoscenza di sé, l’autostima e l’individuazione dell’obiettivo, l’identificazione della strada e il pieno potere, l’attuazione e il passo verso la durata, ad accompagnarvi in un cammino verso un cambiamento duraturo.


Insomma, “parlare non cuoce il riso” ed è “meglio inciampare un po’ lungo una via nuova che restare fermi su vecchi sentieri”, quindi, scegliete la vostra penna preferita e il vostro quaderno migliore. È ora di partire!!

Francesca Tesoro

E poi c’è Katherine: perchè non è mai tardi per cambiare

Nel 1991 è diventata la prima conduttrice donna di un talk show serale sulla rete nazionale, ha condotto più di seimila episodi vincendo 43 Emmy Awards per la prima serata, dimostrando di essere il punto di riferimento televisivo in quanto eccellenza senza compromessi. Questa è Katherine Newbury, la leggenda della televisione americana.

Ma cosa si nasconde dietro la leggenda?
Una donna estremamente sicura di sé, che dispoticamente dirige il suo staff composto di soli uomini, senza neanche ricordarne i nomi e che, fondamentalmente, non si preoccupa neanche di incontrarli o di farli accedere allo stage durante le riprese.
Ma Katherine, che è stata una delle rare eccezioni di donne che sono riuscite a fare carriera nel mondo prettamente maschile dei late talk show, per via della sua inflessibilità, della sua durezza e del suo non mettersi in discussione, viene tacciata di misogenia e si scontra, dopo trent’anni di successo, con la minaccia di essere cacciata dal suo stesso show per via degli ascolti in drastico calo.
Così, per far resuscitare gli ascolti bassi da troppo tempo ma soprattutto per non perdere il suo show, decide di tornare a lottare per non essere sostituita.

Chiede al suo assistente di ricercare un nuovo autore da assumere, necessariamente donna, e nella drammatica frenesia del momento lascia che il suo storico braccio destro, scelga tra i tanti e tutti ugualmente poco papabili al ruolo Molly Patel, una ragazza di origini indiane che da sempre ha sognato di lavorare al Tonight with Katherine Newbury e di fare la giornalista ma nel mentre proviene da un impianto chimico, arrivata fin lì per aver vinto un concorso letterario che metteva in palio l’incontro con un dirigente d’azienda a scelta.

Sarà proprio la giovane Molly con il suo esempio di perseveranza e positiva testardaggine ad aiutare la ostica ed irremovibile Katherine e ad attuare tutti i cambiamenti necessari, per farla tornare sulla cresta dell’onda e del successo.

Katherine Newbury, interpretata dalla magnifica Emma Thompson, e Molly Patel, che ha il volto della giovane attrice Mindy Kaling conosciuta dal mondo per la serie The Mindy Project, rappresentano pienamente uno spaccato reale tutto al femminile.
Contrapposte simpaticamente, Katherine è un volto storico della televisione che non si è mai smossa dal suo modo di essere e di comportarsi, sicura di sé e delle proprie capacità, che si è trasformata in qualcuno di intellettualmente superiore e un po’ snob, certa che nessuno possa indicarle un’altra via solo per via del suo essere Unica Donna in un mondo di maschi.
Molly è una grande sognatrice che fa di tutto per seguire i suoi sogni, che viene dal basso e lascia andare il suo lavoro certo per seguire la propria passione e che, soprattutto, ha avuto il coraggio di osare creandosi una progettazione mentale che è riuscita a mettere in pratica.

La passione per ciò che si fa, alla base di tuta la storia, è ciò che accomuna le due donne così diverse per età, cultura ed esperienza, etnia ed estrazione sociale, decisamente così distanti per il proprio modo di essere, di vedere e di vivere il mondo.

Film molto bello lanciato dalla Adler Entertaiment, scritto e diretto dalla regista di origini indiane Nisha Ganatra, con la componente femminile molto copiosa anche nel dietro le quinte, rappresenta l’impegno e la perseveranza di chi ci ha veremente creduto e crede talmente tanto in sé stessi e in quello che si vuole fare e diventare da essere disposta a cambiare, anche a costo di modificare profondamente il proprio modo di essere, pur di non perdere tutto ciò che si è duramente conquistato con il tempo e la fatica.
Con una grande dose di comicità, a tratti elegante, molte volte di gusto, in altri frangenti delicatamente amara, questa pellicola affronta temi davvero profondi legati al sessimo e a tutte le forme di discriminazione che si possono incontrare nel mondo del lavoro e nella vita comune. Con la straordinaria interpretazione di tutti gli attori, ma soprattutto del duetto Thompson-Kaling, si riesce ad assaporare e comprendere con gusto la bellezza dello scambio reciproco delle competenze tra generazioni, l’abbattimento delle barriere nell’ambito lavorativo ed anche il farsi travolgere dalla positività, riuscendo a puntare sul coraggio, l’onestà e il cuore di chi ci sta affianco.
Perchè in fondo, non è mai troppo tardi per cambiare!

Francesca Tesoro

Siamo Fottuti ma forse c’è ancora una speranza di Mark Manson

Mark Manson è un americano di trentacinque anni, è un consulente per lo sviluppo personale, imprenditore e blogger di successo che nell’arco di tre anni ha scritto altrettanti libri balzati tutti nella top ten dei bestsellers del New York Times. Perciò non potevamo non recensire il suo ultimo libro uscito in Italia proprio l’anno scorso intitolato “Siamo Fottuti ma forse c’è ancora una speranza” edito dalla Newton Compton Editori per la collana dei Grandi Manuali Newton.

Con una scrittura decisamente irriverente, ma al tempo stesso divertente e davvero interessante, Mark Manson si interroga sulla felicità e il benessere in modi creativi e inaspettati, rendendo il proprio libro davvero adatto a qualsiasi tipo di lettore. Nonostante la leggerezza con cui è scritto, però, questo volume affronta temi profondi e figli del nostro tempo e, tra storielle simpatiche ed accenni a vicende storiche decisamente importanti, si interroga su quale possa essere la reale direzione che abbiamo intrapreso e soprattutto come possiamo (o dovremmo) prenderci cura di noi stessi e degli altri.

L’analisi che emerge dalla penna di Manson è cristallina. Infatti è un dato di fatto che viviamo in un tempo storicamente positivo, da un certo punto di vista il migliore dalla nascita del genere umano, essendo più liberi, più sani e più ricchi di chiunque ci abbia preceduto. Di contro, il problema sembrerebbe nascosto dietro il livello molto alto di accesso alla tecnologia, istruzione e comunicazione che abbiamo guadagnato e che ci ha allontanto inesorabilmente dalla leggerezza e pragmaticità dei nostri antenati. Di conseguenza, lo standard della felicità umana si è abbassato notevolmente, siamo tutti iperstressati, ansiosi, depressi nel nostro piccolo della vita quotidiana e viviamo a livello globale una situazione in cui il cambiamento climatico sta mutando gli equilibri della vita sul pianeta, la politica economica dei diversi Stati sta miseramente naufragando e, ognuno di noi e a qualsiasi livello, è attorniato da leoni da tastiera che non fanno che insultare tutto e tutti indifferentemente o, peggio, nella vita reale ci ritroviamo tra persone che farebbero di tutto per passare sopra il cadavere di qualcun altro, magari proprio il nostro.

La scomoda verità è che alla nostra cultura e alla nostra società, incastrata in questi meccanismi tutta’altro che positivi, serve speranza quanto l’acqua ad un pesce, perchè è un po’ il nostro carburante. E quando la speranza va in crisi, ci sembra di perdere il nostro scopo nella vita. Il problema vero di tutto questo circolo vizioso è che per creare e coltivare la speranza ci vogliono tre cose: il controllo, che ci illude di avere tutto il nostro destino nelle nostre mani, i valori, che ci spingono a creare qualcosa di importante per cui vale la pena combattere ogni giorno, la comunità, che, facendoci sentire parte di qualche cosa con i nostri stessi valori, ci spinge ad andare avanti per ottenere determinate cose in comune. La perdita anche solo uno di questi elementi, spinge le persone a perdere la speranza, creando meccanismi di crisi, facendoci dimenticare il quesito principale sul quale ognuno di noi dovrebbe interrograsi: cosa sta succedendo al mondo da farci stare peggio anche se la situazione è nettamente migliorata rispetto il passato?

Io che ho letto questo libro nell’arco di qualche giorno, presa dalla furia di capire cosa potesse portare Isaac Newton a prendersi uno sganassone a sette anni perchè fissava la luce del sole per capire di cosa fosse fatta, o come potessi realizzare tutti i miei sogni e fondare la mia religione personale, leggendo di filosofi odiati al liceo che in realtà grazie a Manson si sono rivelati dei geni sublimi, interrogandomi sulla reale formula dell’umanità scoprendo (miseramente) che l’adulto è in grado di accantonare il piacere per i principi (convincendomi così che ogni tanto devo riattivare il bambino che è in me) e che in fondo c’è un’economia delle sensazioni e che – udite, udite!- sono i sentimenti a muovere il mondo, direi che – si!- questo libro va proprio letto, perchè farebbe bene ad ognuno di voi.

Il libro è pieno di spunti decisamente interessanti di riflessione e approfondimento su come vivere serenamente nonostante i paradossi della vita. Dovrebbe essere considerato un consiglio a vivere una vita e un mondo migliore, cosa necessaria in questo momento di distrazione dai veri valori che dovremmo fare nostri, mettendoci in discussione e strappando più di qualche risata riuscendo a fornire al lettore una sorta di antidoto alla nostra era di malessere spirituale cronicizzato.

Siamo Fottuti ma forse c’è ancora una speranza” è decisamente un libro illuminante che tutti noi dobbiamo leggere prima di gettare la spugna, perchè con la sua schiettezza intelligente e accessibile ci ricorda di rilassarci, di non sudare le piccole cose e di mantenere viva la speranza per un mondo migliore.

Francesca Tesoro

Antifragile: prosperare nel disordine di Nassim Nicholas Taleb

Il libro “Antifragile: prosperare nel disordine” di Nassim Nicholas Taleb, edito dalla Il Saggiatore, è un libro davvero coraggioso e da leggere, che potrebbe cambiare le nostre vite o, quantomeno, il nostro modo di pensare, conducendoci ad una nuova visione della società e di concretizzazione delle nostre idee.

L’autore, oltre ad essere un saggista famoso in tutto il mondo anche grazie ad altri suoi libri diventati best sellers a livello mondiale, è un filosofo che si è dedicato allo studio dei processi percettivi, sociali e cognitivi, esperto di matematica finanziaria che riporta nei suoi lavori tutta la sua indocile concentrazione sulla probabilità, la casualità e l’imprevedibilità della sorte per comprendere come porsi nei confronti della casualità che governa, di fatto, il mondo che ci circonda e nel quale viviamo.

Antifragile, nonostante sia stato scritto nel 2012, risulta essere più attuale che mai e con esso, suddiviso in sette libri, con una conclusione di pochissime pagine piene di un altissimo spirito comunicativo e due appendici tecniche che matematicamente traducono i concetti di tutto lo scritto in grafici e formule per i “lettori non letterari”, percorriamo la chiave di tutto che è l’antifragilità.

Ma che cos’è l’antifragilità?

È la base di tutto. È ciò che ha permesso ai sistemi naturali di contraddistinguersi e sopravvivere. È la capacità di rafforzarsi evitando il controllo stringente di tutto ciò che ci circonda e che facciamo, considerando anche che è probabilisticamente impossibile controllare davvero tutto. Di conseguenza, la nostra incapacità di comprendere a fondo i fenomeni umani e naturali ci espone al rischio degli eventi inaspettati i quali altro non sono che elementi destabilizzanti in grado di renderci fragili e portatori a scelte e concezioni errate.

Il punto di partenza per comprendere l’antifragilità è lo stoicismo di Seneca e le sue applicazioni che spaziano dalla filosofia all’ingegneria, passando per la religione. Per cui ci vogliono quasi duecento pagine per comprendere realmente che la strategia che consiste nell’unire rischi elevati ad azioni molto prudenti è preferibile ad un approccio semplicistico e di ricerca del rischio medio. Quello che capiamo leggendo questo libro è che l’incertezza non va considerata solo come una fonte di pericoli da cui difendersi, ma diventa al tempo stesso un bacino dal quale possiamo trarre vantaggio, da esso, dalla volatilità, dal disordine e persino dagli errori, imparando così ad essere antifragili. Del resto se costringessimo un volatile al suolo, quello perderebbe tutte le sue capacità, il nostro disturbo ossessivo di etichettare tutto ci potrebbe gettare nello sconforto più totale per qualsiasi minimo accenno di disordine e perseverare nei nostri sbagli resta e resterà sempre diabolico.

Nassim Nicholas Taleb riesce a parlarci di innovazione, del concetto di opzione e di opzionabilità cercando di farci capire, ulteriormente, come poter penetrare l’impenetrabile e dominarlo per conquistarlo completamente. Comprendere come il nostro corpo si protegge dalle malattie e le specie viventi si evolvono, come la libertà d’impresa crea prosperità e il genio si trasforma in innovazione, come Charles Darwin, il codice Hammurabi, le poesie di Baudelaire, la Summa Theologiae di San Tommaso D’aquino, la fallacia della tecnologia o il mito del locandiere Procuste siano tutti strumenti per parlare dell’antifragilità e aiutarci a capire ed interiorizzare perchè “il robusto sopporta gli shock e rimane uguale a se stesso, mentre l’antifragile li desidera e se ne nutre per crescere e migliorare, le città-stato funzionano meglio degli stati-nazione, la spontanea confusione dei suk è preferibile all’eleganza formale dei mercati regolati, le grandi corporation sono una minaccia per la società, tanto quanto i piccoli imprenditori ne rappresentano la forza”.

Secondo Nassim Nicholas Taleb e la sua filosofia – che dovrebbe essere intesa come il nuovo darwinismo -, la vera ricchezza consiste in un sonno privo di turbamenti, in una coscienza pulita, nella gratitudine reciproca, nella mancanza di invidia, in un buon appetito, forza muscolare, energia fisica, risate frequenti, pasti in compagnia, niente palestra, un po’ di lavoro fisico (anche come passatempo), niente sale riunioni e qualche sorpresa di tanto in tanto. Perchè chiunque faccia previsioni sarà fragile rispetto agli errori di previsione e un’opzione è ciò che ci rende antifragili e ci permette di beneficiare del lato positivo dell’incertezza.

In fondo, la probabilità che un evento raro si verifichi è semplicemente impossibile da calcolare e qualunque cosa tragga più vantaggi che svantaggi dagli eventi casuali è antifragile, mentre in caso contrario, è fragile.

Francesca Tesoro

Alike: un cortometraggio per riflettere

Oggi vi presentiamo un cortometraggio che ci ha particolarmente colpito per la sua grandiosa semplicità nel passare un messaggio profondamente emozionante.
Alike è un 3D computer animated short film diretto da Daniel Martínez Lara e Rafa Cano Méndez, due ragazzi abili nell’animazione, nella creazione di cortometraggi di vario genere e storytelling vignettistici, che nel frattempo hanno anche creato delle scuole nel settore.
Per creare questo piccolo capolavoro, pubblicato nel 2015, ci sono voluti cinque anni di lavorazione da parte di un team straordinario che è valso, nel giro di poco più di un paio di anni, la nomination a ben 151 premi dei quali ne ha vinti 97, tra cui il premio Goya, ovvero il più importante riconoscimento cinematografico spagnolo conferito ogni anno dall’Academia de las Artes y las Ciencias Cinematográficas, come Miglior Corto Animato del 2016.Iniziato con l’ausilio di applicazioni gratuite on-line ed ex studenti della scuola Pepeland di Daniel Martínez Lara a causa del budget estremamente ridotto, è diventato in breve tempo un miracoloso successo che ha solcato gli schermi in ogni dove del mondo essendo stato visto più di dieci milioni di volte.
A dirla tutta, nel tempo immediatamente successivo, Alike è anche diventato fonte di ispirazione per “Better Together”, un libro per bambini curato da Beascoa e creato da Daniel Martínez Lara, Abel Tébar e Rafa Cano.

Alike concentra in poco più di otto minuti la storia di un padre e un figlio, iconicamente chiamati Copi e Paste e che in inglese significano copia e incolla, i quali vivono in una società dove l’ordine e l’etica del lavoro – per gli adulti – e del conformismo – per i più piccoli – soffocano letteralmente il colore e la creatività dei suoi abitanti. La città nella quale abitano, mossa da una frenesia monotona ed alienata appare, in realtà, come una location desolata e incolore, eccetto tre cose: Copi, Paste e un violinista che suona la sua musica in un parco.

Ogni mattina, Copi e Paste si preparano e, usciti di casa, seguono la massa degli abitanti che si divide tra scuola e lavoro. Usciti in strada, la frenesia, la creatività e la fantasia di Paste si scontrano con la serietà di Copi, responsabile genitore che crede di tracciare l’unica via percorribile per il futuro del proprio figlio.
Ed è su quella stessa strada che, sempre ogni mattina, incontrano un violinista in un parco che suona una melodia incantevole che affascina il piccolo, lasciando indifferente il padre. In quella stessa routine quotidiana, succede che quando il padre lascia suo figlio a scuola e arriva al lavoro perde il suo colore e, nel mentre il figlio, chiuso nella scuola, cerca di essere creativo preferendo e disegnando scarabocchi invece di fare il lavoro scolastico. Ogni giorno si ripete la stessa cosa e, piano piano, quelle regole imposte dalla vita quotidiana iniziano a far scomparire i colori…

In questa animazione, troviamo due elementi fondamentali: il colore, immediatamente evidente anche all’occhio più distratto e il significato intrinseco del cortometraggio.
Il colore viene usato come strumento che metaforicamente identifica in tutta la storia l’esplorazione e il confronto della mancanza di creatività all’interno dell’ambiente e dei personaggi, la stereotipizzazione dei luoghi e delle persone, l’assenza di qualcosa di fondamentale che, in un certo senso, ci rende liberi.

Il significato intrinseco di questi pochi minuti, invece, valgono quanto una lezione di vita.
Primariamente, altro non fa che rappresentare l’alienazione dell’individuo fagocitato dalla società, che ne risucchia e sotterra qualsiasi forma di emozione.
Secondariamente, disegna lo spaccato del mondo di oggi che favorisce l’individualismo, non accetta le idee alternative e la voglia di sperimentare, dove la creatività e il differenziarsi dalla massa che ci circonda diventa (quasi) una missione impossibile, soprattutto in un mondo del lavoro come quello che viviamo oggi.
In ultimo, ma non meno importante, il vero significato non è tanto racchiuso nel fatto (drammaticamente ed assolutamente vero) che la monotonia quotidiana delle nostre vite ingrigisce adulti e bambini, ma la cosa a cui dovremmo fare maggiormente più attenzione tutti, è che stiamo perdendo la bellezza e il vero senso della vita che viviamo ogni giorno, dimenticandoci letteralmente anche delle cose più semplici, come un saluto, un pensiero, un abbraccio o, addirittura, stiamo dimenticando di provare emozioni.
Sì perchè ogni giorno, ingurgitati in un gigantesco ingranaggio, dimentichiamo di dare il giusto peso a quello che ci circonda, non riuscendo più neanche a provare lo stupore per le piccole cose, come se il bambino che abita in ognuno di noi fosse stato rinchiuso in una scatola sottochiave e sotterrato.

Alike è un cortometraggio davvero emozionante e che, a mio parere, ogni adulto indipentemente dall’avere o meno figli, dovrebbe guardare. Allo stesso modo, è tanto semplice da riuscire a veicolare il suo messaggio anche nelle menti più giovani, che troppo spesso perdono – o forse non conoscono addirittura per nulla – il vero significato dell’essere bambini, creativi, felici, spensierati, sempre incastrati in meccanismi avulsi dalla loro età per dimostrare, già da giovanissimi, di avere più stoffa degli altri.

Quello che dovrebbe accomunare gli adulti e i bambini dopo aver visto questi otto minuti è il ritrovare la consapevolezza che il mondo vive e si nutre di immaginazione e fantasia, bellezza, stupore, creatività e dei gesti semplici che troppo spesso dimentichiamo, ma soprattutto che essere liberi di esprimere sé stessi, è indubbiamente il più grande regalo che possiamo fare a noi stessi e agli altri. Soprattutto agli altri, soprattutto se piccolini, perchè magari, diventeranno la speranza di un futuro migliore per tutti.

Francesca Tesoro

Miyamoto Musashi: “Il Libro dei Cinque Anelli”

La filosofia nel lontano mondo orientale l’abbiamo già incontrata nella recensione di “Sun Tzu L’arte della guerra” ed oggi torniamo a parlare di questo fantastico settore, mai troppo distante da noi, proponendovi Il Libro dei Cinque Anelli edito dalla Oscar Mondadori scritto diversi secoli fa da Miyamoto Musashi.

Probabilmente lo conoscerete in pochi, sicuramente ne avrete sentito parlare almeno una volta nella vostra vita, ma sapete bene che a noi piace leggere le cose in modo differente e, in questo caso forse più che in altri, bisogna partire proprio dall’autore e dal principio.

Miyamoto Musashi, nacque nel 1548 in un villaggio della provincia di Mimasaka, figlio di una famiglia proveniente dal clan Arima di Kyushu, vassalli del castello di Takeyama, nel pieno di quello che storicamente è conosciuto come l’epoca del “medioevo giapponese”.

In quel tempo, era molto forte la rivalità tra i clan giapponesi intorno all’autorità dell’imperatore per la conquista dei nuovi territori da una parte e la lotta sanguinaria contro i tentativi di invasione da parte delle bellicose popolazioni confinanti, periodo nel quale si enfatizzò il ruolo dei guerrieri che agivano nel mondo povero e contadino, ma fonte di estrema ricchezza e potere. Era il tempo dei Samurai e dei Ronin, fedeli combattenti implacabili dei signori i primi, guerrieri rinnegati al servizio di sé stessi i secondi.

Trovatosi ben presto orfano di madre e abbandonato dal padre, Miyamoto, fu affidato ad uno zio materno che gli insegnò i rudimenti della scherma, arte nobile del tempo, con lo scopo di domare il suo temperamento estremamente aggressivo e violento. Eccezionalmente capace con l’arte della spada e, soprattutto, abilmente violento nello sferrare colpi da maestro già all’età di tredici anni nonostante ne dimostrasse molti di più, Musashi, divenne presto un guerriero samurai conosciuto e temuto, perennemente errante in un pellegrinaggio senza meta alla ricerca di avventure e affermazione personale, ricercato dai grandi signori terrieri che guerreggiavano tra loro per averlo nelle rispettive corti come se fosse un trofeo vivente da mostrare.

Documenti storici del tempo riportano delle sue gesta indicibili durante più di sessanta battaglie ed incontri, senza mai una sconfitta e prima ancora che compisse i trent’anni. A quell’età abbandonò i duelli per studiare l’applicazione della sua straordinaria ed unica strategia al combattimento tra gli eserciti e, nei successivi vent’anni, si persero quasi le tracce delle sue imprese.

All’alba dei cinquant’anni tornò ad essere conosciuto al mondo, non più per i combattimenti, ma per la sua opera artistica che spaziava dalla calligrafia alla pittura e scultura, dalla poesia alla saggistica, ma soprattutto alla forgiatura della tsuba, ovvero le else delle spade, di cui si dice, leggendariamente, che ve ne siano ancora in uso alcune nell’odierno Giappone. Ormai anziano e quasi al termine della sua Via, all’età di sessant’anni e autoconfinatosi nella caverna di Reigendo, meta ancora oggi di pellegrinaggio da parte dei suoi seguaci, scrisse sotto forma di lettera ad un suo allievo il Gorin-no-sho (al secolo Il Libro dei Cinque Anelli) e il Dokko-do un insieme di diciannove precetti conosciuti come La Via Che Bisogna Percorrere Da Soli, documenti ancora questi studiati spasmodicamente e alla base della cultura giapponese.

Il Libro dei Cinque Anelli, considerato insieme a pochissimi altri, un classico e fondamentale trattato dell’arte della guerra, è datato intorno al 1645 secondo quanto scritto dallo stesso autore ed è formato da cinque capitoli, ognuno dei quali riporta il nome di uno degli elementi che secondo l’autore costituivano il mondo: terra, acqua, fuoco, aria, vuoto.

Nel primo, il Libro della terra, sono esposte le concezioni strategiche ed esistenziali dell’autore il quale scrive delle diverse vie che un uomo può scegliere di intraprendere nella propria vita, come la via della religione, quella della letteratura, dell’arte del tè o del tiro con l’arco. La scelta della via da seguire dipende dalle proprie inclinazioni e chi sceglie la via della strategia, della guerra e il cammino del guerriero è chiamato a rispettare la mentalità del bushi, cioè del guerriero e dell’essere essenzialmente pronto alla morte. In questo capitolo Musashi introduce la sua personale tecnica di combattimento con la spada, ritenuto fondamentale e con la sola finalità di trionfare in qualsiasi modo sull’avversario o sugli avversari. L’autore parla di una strategia efficace in tutte le occasioni, figlia di un addestramento particolare, senza il quale non la si può padroneggiare.

Il Libro dell’acqua è il secondo capitolo ed ha un taglio estremamente pratico e applicativo. Musashi, spiegando ed addentrandosi nella spiegazione tecnica del suo stile, insegna come la sua strategia e la sua mentalità siano basati, fondamentalmente, sull’acqua, elemento in grado di conformarsi perfettamente al ercipiente nel quale si trova.

Tanto nella vita quotidiana che nella strategia che scegliamo di applicare alla nostra vita, dobbiamo essere semplici e diretti, di larghe vedute, essendo in grado di affrontare le varie situazioni senza tensioni e senza vivere uno stato di estrema rilassatezza.

È necessario concentrare la mente sull’obiettivo, senza pregiudizi né preconcetti, perché bisogna essere in grado di calmare la mente, senza permetterle di indugiare neppure per un attimo, rimanendo presenti a sé stessi e concentrati sul momento del presente.

Diventa fondamentale l’insegnamento del non esitare sulla propria debolezza o sulla parzialità, con una mentalità aperta affinché la mente si accosti alla saggezza e alla gentilezza, coltivandole. Per evitare che gli altri prendano il sopravvento su di noi, bisogna saper percorrere tutte le vie delle arti e delle abilità individuali e, quando come guerrieri saremo in grado di praticare le arti, allora solo in quel momento, avremmo acquisito la saggezza e la gentilezza come qualità strategiche.

La parte centrale dell’opera è il Libro del fuoco nella quale emergono le possibilità di applicazione del kenjutsu – l’uso della spada –non solo alla pratica dei combattimenti ma anche in altri campi.

Musashi scrive dell’importanza del predisporsi in rapporto con l’ambiente e con i fini del trionfo facendo che nulla possa ostacolarci, al punto da avere sempre una via di fuga in caso di necessità.

Importante diventa il rapporto con il nemico, qualsiasi esso sia, perché non diventi elemento di sopraffazione ma, addirittura lo si conosca al punto tale da riuscirlo a prevenire o anticipare e, applicando questa strategia su larga scala, significa saper vagliare l’avversario, conoscendone la mentalità per poterlo attaccare inaspettatamente.

Nel Libro dell’aria Musashi sembra interrogare il lettore nell’arco dei secoli se l’abilità tecnica sia sufficiente a garantire la vittoria e, l’uso della spada e la sua scelta nel combattimento, diventa una parafrasi del fatto che tutto dipende da come ci applichiamo a ciò che affrontiamo. Non bisogna ragionare in termini di forza o debolezza del colpo che si infligge, ma bisogna comprendere ed essere pronti a colpire e basta, senza esitazione e senza bloccarsi.

L’ultimo capitolo, il Libro del vuoto, anche se lievemente differente nella struttura, tratta sempre in modo concreto la questione del combattimento. Nella concezione dell’epoca, il vuoto era il non-esistente e non era l’incomprensibile. Musashi, filosoficamente, non ammette un limite alla conoscenza ma, allo stesso tempo, ritiene che il vuoto non può essere oggetto di conoscenza ed è dove non c’è alcuna forma o corpo. Appare, questa idea del vuoto qualcosa di profondamente incomprensibile, soprattutto a noi occidentali che non siamo abituati a vivere la nostra vita attraverso una visione filosofica totalizzante, ma è conoscendo l’esistente che si può conoscere il non-esistente. Il senso di questa profonda visione filosofica è che con una mente salda e libera dobbiamo applicarci costantemente, senza alcun segno di cedimento e diventa necessario, dunque, studiare i due aspetti più importanti che ci compongono, il cuore e la mente e, solo in questo modo, ci sarà possibile conoscere il vero vuoto.

Se invece osservassimo le cose intorno a noi secondo i principi generali del mondo, noteremo (solo) l’esistenza di preconcetti e distorsioni che ci discosterebbero dalla Vera Via. Allora il nostro scopo é quello di cercare di conoscere il nucleo e prendere come punto di riferimento la realizzazione della vera via, cercando di migliorare sempre noi stessi e quello che ci circonda.

Ma perché la filosofia orientale, soprattutto quella legata al leggendario mondo dei Samurai, diviene strumento di formazione?

Il Giappone dei Guerrieri è sempre stato, nell’immaginario comune, un argomento quasi favolistico intriso di magia e leggenda, ispiratore di filosofie orientali che sono arrivate in occidente, che hanno gettato le basi per numerose pratiche sportive esportate oltre l’area geografica cino-giapponese e che sono diventate vere e proprie strategie di formazione.

I suoi precetti relativi al combattimento e alla riuscita in qualsiasi impresa forniscono lezioni preziose a chiunque affronti circostanze impegnative, ai militari come agli uomini d’affari, agli atleti come, globalmente, a tutti i “guerrieri” della vita di ogni giorno ed è proprio per questo che Il Libro dei Cinque Anelli è considerato un caposaldo della formazione per i manager in America, Giappone e Germania.

La cultura dei Samurai, sviluppatasi in un periodo di più di settecento anni ed esemplificata nel libro ceh vi abbiamo presentato oggi, influenza ancora oggi ogni aspetto del modo di pensare e di agire dei giapponesi.

Molti di loro, infatti, più o meno consapevolmente, conformano i propri atteggiamenti al pensiero e al modo di agire di Musashi, compreso il sacrificio per gli ideali e il costante allenamento per raggiungere la perfezione.

È per questo che, ripetutamente nell’arco della storia della formazione ed oggi più che mai, le classi dirigenti e le persone ai ruoli di comando, ricevono direttamente ed indirettamente formazioni strutturate seguendo gli antichi precetti filosofici dei guerrieri di tempi lontani. L’idea del sacrificio, dell’eccellenza da raggiungere, della lungimiranza sugli altri, sono tutti concetti ai quali, ormai, siamo abituati negativamente, mentre invece dovrebbero essere filosoficamente interpretati come nell’antichità, perchè non dovremmo mai dimenticare che la mente dovrebbe accostarsi alla saggezza e alla gentilezza, coltivandole e dovremmo mettere in pratica quanto scritto secoli fa anche se al posto dell’armatura siamo vestiti nel rispetto dei dress code moderni.

Francesca Tesoro