“Sully” e il valore delle scelte

Diverse volte abbiamo usato i film come strumenti di formazione, diretti o indiretti, per le persone che si ritrovano a ricoprire ruoli importanti o semplicemente, abbiamo scelto film, che permettevano la comprensione di alcuni valori, situazioni o del fattore umano.

Perciò oggi abbiamo scelto di parlarvi di “Sully”, film del 2016 co-prodotto e diretto da Clint Eastwood, che racconta una storia realmente avvenuta nel 2009. Questo titolo ci ha catturato per il peso e il valore che conferisce alle scelte e alle loro conseguenze. Ne avremmo potuto selezionare di più simpatici o ironici, ma questo ci ha convinto per il  forte impatto emotivo che crea non solo nel pubblico – considerando che è tratto interamente da una storia vera e che il reale protagonista ha partecipato alla scrittura e alle riprese del film –  ma anche nelle persone che spesso si ritrovano a prendere decisioni che possono cambiare il valore delle cose e lo stato dei fatti.

Se avete visto questo film, magari non coglierete subito il perchè di questa scelta, ma se lo vedrete solo dopo aver letto questa recensione, noi di Sistema Generale, siamo sicure di aver fatto la scelta migliore.

Chesley “Sully” Sullenberger, interpretato dal magistrale Tom Hanks, è il pilota del volo della  US Airways 1549 che,  decollato da New York con centocinquantacinque passeggeri a bordo, poco dopo impatta contro uno stormo di uccelli che ne compromette i motori. Non essendo sicuro di poter rientrare su uno degli aeroporti vicini ed avere, così, la certezza di salvare la vita di tutti coloro i quali sono sul volo, Sully sceglie la via più difficile e fa ammarare il suo bestione sulle acque gelide del fiume Hudson che attraversa la città. Quella che poteva sembrare la mossa più azzardata e rischiosa, si rivela invece vincente. I passeggeri sopravvivono, i soccorsi arrivano in tempo, i testimoni oculari del fatto restano sbigottiti e il pilota diventa un eroe per l’opinione pubblica ma, ben presto, dovrà fare i conti con l’inchiesta aperta nei suoi confronti dall’ente aeronautico per non aver seguito il protocollo. Sully terrà testa alla commissione di inchiesta e in particolare invaliderà, con la sua competenza e la sua conoscenza, tutte le prove contro di lui, dimostrando la loro erroneità perchè imprecise, errate e soprattutto in quanto elaborate da una macchina, palesando come il valore della conoscenza umana possa essere migliore di qualsiasi algoritmo.

Cosa ci insegna questo film?

L’associazione di un fatto di cronaca così importante, diventato prima un libro e poi un film, potrebbe sembrare molto distaccato da qualsiasi ambito, anche al di fuori del lavorativo-professionale. In realtà, al contrario, estremizza brutalmente  il valore  delle scelte che facciamo e le loro conseguenze o, meglio ancora, le ripercussioni delle nostre scelte sui fatti successivi. Da un altro punto di vista, invece, ci dimostra come con la competenza e la caparbietà si possa sostenere ciò che si è compiuto ed in alcuni casi, dimostrare come la scelta più rischiosa sia (stata) quella giusta. 

Ad un certo punto del film, avvenuta la tragedia e partita la commissione di inchiesta, ci si rende immediatamente conto di come Sully viva un sentimento di profonda frustrazione presagendo un giudizio su tutta la propria carriera, con il rischio di poter essere ricordato negativamente solo per quei 208 secondi e non aver seguito il protocollo e non certo per aver salvato i passeggeri più l’equipaggio.

Secondo me sono due  i momenti catartici di questo film. Il primo, quando l’aereo senza i motori plana letteralmente sulla città di New York in un silenzio irreale, soprattutto in cabina di pilotaggio, per qualche secondo. In quei secondi, lo sguardo del pilota cambia e si illumina della soluzione per cui nessun pilota al mondo viene e verrà mai addestrato.

Il secondo, invece riguarda il terrore che il bravissimo Ton Hanks fa trasparire in tutta la sua pienezza, ed è quello di perdere tutto nonostante la consapevolezza di aver fatto del proprio meglio.

Ed è li che si vede il valore e il peso del fattore umano, quello di cui più volte abbiamo parlato.

L’indagine della commissione che seguirà all’incidente, è sul fattore umano, vuole indagare il perchè delle decisioni prese dal pilota e dal suo secondo, che sono convinti di aver fatto il massimo, il meglio e l’unica cosa possibile per salvare tutti.

Tom Hanks-Sully da voce e rappresenta la chance migliore, giura che lo avrebbe rifatto e sbugiarda gli ingegneri aeronautici che non sono piloti e che soprattutto non erano lì. È questo il senso delle cose e di questo film in particolare. Le decisioni le prendiamo noi e non possiamo affidarci ad ogni logaritmo che crediamo corretto. Soprattutto ce ne dobbiamo assumere la responsabilità dopo.

Manager o pilota?

Per quanto – fortuna sua – un manager potrebbe non trovarsi mai in una situazione così estremizzata, ci piace molto il sillogismo con il senso di ciò che rappresenta il pilota del film. Come Sully ha salvato la vita di tutti affidandosi alla sua esperienza, alla sua competenza e alla capacità maturata negli anni per aver saputo “calcolare le distanze a vista” per ammarare sull’Hudson e non precipitarci dentro – attenzione, c’è una bella differenza!-, così il manager, chiamato a prendere decisioni dovrebbe saper prevedere l’esito delle stesse e delle ripercussioni, fidandosi del proprio fattore umano e di quello dei propri collaboratori, avendo anche la capacità di osare e scegliere la via più rischiosa, sapendone sostenere il dopo. Una scelta rischiosa fatta in modo consapevole e competente non dovrebbe mai metterci in dubbio e non dovrebbe mai farci pentire di aver raggiunto l’obiettivo.

In qualsiasi settore dovessimo trovarci, questo film dimostra il valore e la valenza delle nostre scelte, molto più importanti degli schemi e dei logaritmi usati ormai ovunque per trovare la soluzione. Si può essere preparati ed addestrati a tutto, ma è il saper scegliere in modo corretto che fa la differenza. In fondo Sully sarebbe potuto tornare all’aeroporto de La Guardia come dettava il protocollo, ma non ci sarebbe arrivato, perciò, è stata la scelta più rischiosa di ammarare che gli ha permesso di salvare tutti.

Francesca Tesoro

“Leadership Emotiva” di Daniel Goleman

“Leadership Emotiva – Una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi” edito dalla Bur di Daniel Goleman non è un libro che abbiamo scelto, anzi, è più corretto scrivere che si è fatto scegliere. Prima di tutto, la copertina colorata e accattivante lo rendeva più vicino a un libro simpatico che a uno riguardante la materia del leader, della sua formazione, del suo essere e della sua applicazione pratica nel mondo aziendale e del lavoro ma, molto più in generale, nel circuito delle relazioni di gruppo.

Probabilmente questa sensazione discende direttamente anche dall’autore, Daniel Goleman, giornalista americano classe 1946, psicologo specializzato nello sviluppo della personalità – materia di cui è stato anche professore ad Harvard -, scrittore di temi altisonanti quali la neurologia e le scienze comportamentali per il New York Times e con all’attivo una intera collana dedicata all’intelligenza emotiva e sociale, alla creatività e alla leadership, all’empatia e all’emotività, alle forze che compongono e costituiscono le cose e le persone senza scadere mai nel trascendentale incomprensibile.

Lo scopo principale di questo volume è spiegare, in termini semplici e fluidi di immediata comprensione, raccontando qua e là reali aneddoti accaduti agli alti livelli di grandi imprese, come essere “capi” migliori, più efficienti e, perché no, anche più amati.

Così, leggendo le pagine che scorrono velocemente, scopriamo come, attraverso la gestione degli stati d’animo di chi lavora con noi, il leader dovrebbe riuscire a far crescere l’armonia e il talento dei propri collaboratori. Armonia e talento, per quanto scontati, vengono presentati e raccontati come elementi fondamentali alla base dello sviluppo economico ed anche culturale delle comunità aziendali e, in uno spettro più ampio, della società. E Goleman ci dice anche come far emergere queste qualità altrui e come portarle avanti, ci racconta com’è un leader, quali sono le sue caratteristiche, le capacità che deve possedere e mettere in atto, cosa deve evitare e come può farsi ascoltare migliorando, in questo modo, la riuscita non solo del proprio lavoro ma anche di tutti coloro i quali gli ruotano intorno.

Chi è il Leader? 

Il leader decide la strategia e sa motivare, riesce e sa creare un clima di finalità collettiva costruendo una cultura condivisa. È colui il quale, attraverso la costruzione di legami emotivi e la promozione di rapporti armoniosi, raggiunge risultati. Un leader, con la sua democraticità, suscita consenso stimolando principalmente la partecipazione, generando nei collaboratori prestazioni eccellenti e un generale senso di autonomia finalizzata all’obiettivo comune.

Riuscendo ad accendere la passione dei collaboratori per il proprio operato, il leader dovrebbe perciò (riuscire a) tirare fuori il meglio da loro e per fare questo, l’unica cosa sulla quale deve lavorare sono le emozioni. Del resto, non è vero che un lavoratore che viene trattato bene, considerato, incitato e del quale vengono valorizzati i talenti, che lavora in un ambiente positivo, lavora meglio? È esattamente vero! E la soddisfazione di un collaboratore nei confronti del proprio lavoro e, di conseguenza, dei superiori è determinata, nella stragrande maggioranza dei casi, da questo meccanismo.

Infatti il successo non dipende tanto da “cosa”ma dal “come”e, quindi, se un leader non è in grado di spronare nel modo corretto le emozioni delle persone della propria squadra nella giusta direzione, non raggiungerà certo i risultati sperati o programmati.

Ciò che distingue i leader migliori dalla massa è la consapevolezza del ruolo decisivo che le emozioni giocano sul posto di lavoro, tanto per ciò che riguarda i risultati tangibili – rendimenti, evitare che il collaboratore con talento scelga di lavorare per altri portandosi dietro il know how, per esempio – quanto per quello che riguarda le relazioni morali, la motivazione, l’impegno di ciascuno, fin anche arrivando ai così detti beni immateriali.

Di contro, i manager dotati di scarsa empatia e di una sorta di freddezza emotiva, sono quelli che tendenzialmente non ascoltano, non valorizzano i talenti dei propri collaboratori e/o dei sottoposti, non raggiungono gli obiettivi e, miseramente, portano sé stessi e l’azienda alla progressiva diminuzione di profitti e rendimenti, insomma all’insoddisfazione e, nei casi più estremi, al fallimento.

Di che stoffa è fatto il leader?

Il primo grande elemento che un leader deve possedere, è senza dubbio l’Intelligenza Emotiva, quella di cui proprio Goleman scrive.

L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie emozioni e quelle degli altri. Autoconsapevolezza, Autoregolazione, Empatia e Talento Sociale, affiancati ad abilità tecniche e cognitive, quali la capacità di ascoltare e il possedere il ragionamento analitico, la capacità di lavorare di concerto con altri e la flessibilità di fronte al cambiamento, sono gli aspetti attraverso i quali essa si manifesta e si mette in pratica.

Analizzando questi elementi, ci si rende conto come autoconsapevolezza e autoregolazione riguardino la gestione di sé, mentre invece empatia e talento sociale hanno a che fare con la gestione dei rapporti con gli altri. Gli altri elementi, che ad un lettore distratto possono sembrare solo dei meri corollari, sono invece gli (ottimi) strumenti di attuazione delle componenti che riguardano il sé e gli altri.

La capacità di mettere in pratica correttamente questi elementi in modo unitario ed equilibrato, diventano la predisposizione all’eccellenza nella leadership.

È, di per sé, un concetto abbastanza semplice e logico: in ogni gruppo umano, sia esso di compagnia o di lavoro, di piccola azienda o multinazionale, il leader gode – e lo fa in misura superiore a tutti gli altri – del potere di influenzare le emozioni dei suoi subordinati. Di conseguenza se queste vengono stimolate verso l’entusiasmo, il gruppo darà del suo meglio, in alternativa, se al posto dell’incoraggiamento, si scegliesse la via dell’ansia, della pressione e del rancore, il gruppo andrà completamente fuori fase, perdendo di vista obiettivi e i rendimenti in ambito lavorativo oppure le intere relazioni tra i soggetti, se tali comportamenti riguardano un gruppo non lavorativo. 

Per quanto possa essere relativamente recente l’idea che l’intelligenza emotiva, la quale vede le sue prime teorizzazioni a metà degli anni novanta dello scorso secolo, presenti dei grandi vantaggi a livello di costi e benefici, è ormai un dato di fatto quando, statistiche alla mano, si nota che la maggior parte dei manager che svolge il proprio lavoro con il cuore più che con la testa – senza perderla ovviamente!- abbiano più successo.

Entrare in sintonia con i sentimenti delle persone con cui si lavora, permette di gestire le situazioni di difficoltà e di conflitto, anche latente, senza che sfuggano di mano ed arrivino a livelli incontrollabili. Nonostante nella mente dei più, il concetto di leadership sia collegato all’idea di dominio e superiorità, nella realtà della gestione di un qualsiasi gruppo, essa è al contrario l’arte di persuadere gli altri a cooperare in vista di un obiettivo comune.

Le competenze di un leader

Per quanto tutto possa sembrare fumoso e aleatorio, quanto scrive Goleman è al contrario molto concreto e tangibile e, dopo aver letto il libro con molta attenzione, cercherò di schematizzarvi in modo diretto le competenze che un leader deve possedere, lasciando a voi la voglia di leggere l’appendice al libro dove troverete la spiegazione chiara e concisa di ogni abilità.


In ogni caso e qualsiasi sia l’ambito nel quale vogliate diventare dei Leader, prendete spunto da questo ottimo volume e vedrete che le cose andranno sicuramente nel modo migliore.

Francesca Tesoro

“Shareable! L’economia della condivisione” a cura di Tiziano Bonini e Guido Smorto

L’economia della condivisione o sharing economy è oggi una realtà in forte sviluppo anche nel nostro Paese. Oltre a un sistema economico rivoluzionario che si genera dalla collaborazione tra pari, l’economia della condivisione sta diventando, in molte parti del mondo, un vero e proprio stile di vita, un modo di pensare e di organizzare la propria quotidianità contando sul prossimo, ma anche mettendosi a disposizione del prossimo stesso. Car sharing, bike sharing, home sharing, crowdfounding, co-working e molti altri termini presi in prestito dalla lingua inglese sono parole ormai di uso comune anche per noi, un po’ per sentito dire, un po’ per esperienza diretta.

In “Shareable! L’economia della condivisione”, Edizioni di Comunità, Guido Smorto e Tiziano Bonini hanno raccolto e tradotto assieme a Maria Moschioni una serie di articoli tratti dalla rivista online no profit Shareable.net, nata nel 2009 negli Stati Uniti dalla collaborazione dei maggiori esperti mondiali di economia collaborativa, come guida a questo nuovo modo di vivere e di pensare, ma anche come antidoto alla profonda crisi che, con un preoccupante effetto domino, ha colpito tutto il mondo occidentale in questo ultimo decennio. Questa antologia di articoli vuole fare il punto sui successi e sui fallimenti di questo sistema economico in tutto il mondo, cercando di avvicinare al concetto di economia collaborativa anche noi Italiani, più restii a concederci la possibilità di affacciarci su questo universo di novità che ha per basi il rispetto del prossimo.

Come spiega nella sua prefazione Neal Gorenflo, direttore esecutivo e co-fondatore di Shareable.net e consulente sui temi legati alla sharing economy per istituzioni pubbliche e private in tutto il mondo, la condivisione è una delle attività umane più importanti per diversi ordini di fattori, come la lotta all’esaurimento delle risorse naturali, all’isolamento sociale, al divario tra ricchi e poveri, ma anche allo spreco delle risorse e all’indifferenza sociale verso chi sta peggio. Questo sistema, naturalmente, non relega in secondo piano la proprietà privata, ma la esalta, mettendola a disposizione del prossimo che, a sua volta può mettere la propria a disposizione degli altri e così via. All’interno di questo sistema primordiale, naturalmente, si inseriscono anche le aziende, magari produttrici di strumenti o servizi utilizzabili da tutti come se fossero propri, per poi essere rimessi a disposizione degli altri, una volta terminato l’utilizzo esclusivo. Tutte queste dinamiche permettono di esaltare la sostenibilità dei servizi resi, ma anche di rafforzare un senso di fiducia e rispetto verso “l’altro”, chiunque egli sia, come nostro pari e nostro alleato nella vita di tutti i giorni e non come ostacolo alla nostra completa libertà di espressione e di possesso.

In questa raccolta di articoli, tuttavia, si evidenziano anche i fallimenti di questo sistema economico e la difficoltà di applicarlo in comunità non ancora pronte o in ambiti troppo complessi, oltre alle conseguenze economiche e sociali anche negative che questa economia può avere in determinati casi, come la perdita o la ricollocazione di risorse lavorative e anche di capitale umano.

Maggiormente interessanti sono gli articoli che approfondiscono esempi concreti di città, più o meno grandi, che, in tutto il mondo stanno cercando di mettere in pratica questi modelli, ma anche quelli che raccontano l’impatto che la sharing economy potrebbe avere sulle amministrazioni pubbliche, analizzandone vantaggi e svantaggi in modo puntuale ed equilibrato.

Di sicuro per molti, tra cui i fondatori di Shareable.net, l’economia della condivisione rappresenta un sogno che si realizza ogni giorno: a ogni traguardo raggiunto si aggiunge un nuovo obiettivo da raggiungere. Per altri si tratta, invece, di un vero e proprio incubo, un sistema che mette in discussione status sociali e differenze non solo economiche, pieno di incertezze e punti interrogativi per la sua stessa struttura che mette l’uomo al centro e non i suoi beni. Il pregio di questa raccolta di articoli non è dare una risposta giusta o sbagliata ai dubbi e alle considerazioni del lettore, ma di proporre una guida, un approfondimento fatto dai risultati degli studi e dell’esercizio di molti esperti del settore, in modo tale che ciascuno possa farsi un’idea più consapevole e possa decidere che ruolo avere all’interno di questo sistema economico di condivisione che è già una realtà tangibile in tutto il mondo.

Alessandra Rinaldi

“Chi ha spostato il mio formaggio?” di Spencer Johnson

Oggi vi racconterò due storie, una riguarda il libro “Chi ha spostato il mio formaggio?” di Spencer Johnson edito  dalla Sperling & Kupfer, l’altra invece su quello che ha significato leggerlo.

Ma partiamo dall’inizio.

In una giornata di pioggia battente, avendo voglia di fare una passeggiata ma per nulla intenzionata a bagnarmi come un pulcino, sono entrata nella libreria dietro l’angolo e ho cominciato a curiosare tra le varie sezioni.

Avevo notato che la disposizione delle tematiche era stata cambiata e, su un tavolo al centro di alcune librerie, era stata creata una sezione con un cartello sul quale non era scritto altro che un punto interrogativo. Incuriosita ho osservato i libri che erano stati ammassati in modo ordinato e la mia attenzione venne catturata da questo volumetto tascabile. Sembrava una favola per bambini lasciata in una area dedicata a libri sulla tecnologia,  previsioni del cambiamento climatico e tutto ciò che era relativo alla letteratura motivazionale.

La copertina richiamava decisamente le iconografie delle storie per bambini e, a dir la verità, così lo pensavo. Però mi aveva attirato a tal punto che presi questo libro dal mucchio e, seduta su una poltrona che sembrava lasciata lì apposta per me, iniziai a leggerlo, senza prestare più di tanto attenzione al sottotitolo, decisamente da adulti: Cambiare se stessi in un mondo che cambia in azienda, a casa, nella vita di tutti i giorni.

Quando ormai fuori era buio e dall’altoparlante una voce roca avvertiva che la libreria era in chiusura, girai l’ultima pagina, rendendomi conto, solo in quel momento, di aver letto il libro di Spencer Johnson in una sola volta. Avrei potuto lasciarlo lì, ma pervasa dal senso di colpa, andai in cassa e lo pagai.

Cosa aveva questo libro di così particolare da riuscire ad attirare la mia mente frenetica?

Prima di tutto non è una storia per bambini, anzi, è un libro trasversale, in grado di rappresentare la parte complessa e quella semplice che coesistono in ognuno di noi, indipendentemente da età, sesso, cultura o paese di origine, come viene riportato nelle prime pagine.

Scorrendo l’introduzione è raccontata La storia dietro la storia, ovvero la genesi di questa fiaba scritta più di vent’anni fa,  che parla di cambiamenti, di similitudini tra il Formaggio che rappresenta ciò che ognuno di noi desidera nella propria vita (qualsiasi essa sia) e il Labirinto che è invece il luogo dove noi cerchiamo l’oggetto del nostro desiderio.

Vengono presentati i quattro personaggi al centro della storia che identificano i diversi aspetti della natura umana, dai più semplici ai più complessi, rappresentando i comportamenti che in un determinato contesto vengono messi in pratica naturalmente da ognuno di noi, determinando il nostro fallimento o il successo.

Viene raccontato come, incredibilmente, questa storia abbia salvato carriere, matrimoni e persino vite umane, oltre che salvato l’azienda di Ken Blanchard, autore della prefazione, il quale convinto dal profondo valore di questa storiella, ne consegnò una copia in pre-edizione a ciascuno dei dipendenti della propria azienda poco inclini ad adattarsi alla fase di mutamento aziendale e del mercato che stavano soffrendo. Inutile dire che l’azienda tornò sull’onda e non rischiò di fallire miseramente.

Nella storia di “Chi ha spostato il mio formaggio?” troviamo i topolini Nasofino e Trottolino e gli gnomi Tentenna e Ridolino. Tutti e quattro vivono in un labirinto. Due di loro saranno in grado di agire in modo semplice e diretto, riuscendo ad adeguarsi al cambiamento. Gli altri due invece, incastrati nei loro meccanismi e nelle passioni, nei modi di fare e di pensare, complicano enormemente le cose non riuscendo a trovare la soluzione al loro cambiamento e a quello esterno.

Perciò, tra le vie che sembrano infinite del labirinto, due si daranno da fare e troveranno le soluzioni migliori per vivere ed adeguarsi al cambiamento prima degli altri, gli altri due invece, agiranno in maniera differente, scontrandosi con le proprie nature, paure, debolezze.

Tutti hanno un obiettivo, il Formaggio, mentre le vie per raggiungerlo, saranno diverse.

Gnomi, Topolini, Formaggio e Labirinto altro non sono che la stigmatizzazione della natura umana che deve fronteggiare il cambiamento, personificazione dello stesso autore che, in un momento della propria vita in cui non sapeva come affrontare un difficile cambiamento, scrisse quella che immaginava fosse solo una storiella per sé ed invece è diventato un best seller  in grado di scalare le classifiche internazionali in soli sedici mesi, perché frutto di un richiamo universale.

                   

E questo frutto non è assolutamente scritto tra le righe di questo libro, dal momento che la validità di questa storia entrata prepotentemente nelle case, aziende, scuole, chiese, esercito e mondo dello sport, nonché nel modo di fare management,  non è il suo contenuto, ma come questo viene percepito, recepito e applicato alla propria personale situazione.

Ecco la grandiosità di questo piccolo libro tascabile.

Leggere questo libro ha significato assumere una consapevolezza personale differente, incredibile a pensarlo, figuriamoci a dirlo.

In effetti, quanto scrive Blanchard a conclusione dell’introduzione come augurio ai lettori, si è realizzato.

Ho letto un libro che sembrava una semplice favoletta, ho assaporato la scoperta di essa e ho imparato a spostarmi con il mio (Nuovo) Formaggio, affrontando il cambiamento che avevo davanti agli occhi e non avevo percepito come tale.

Dovreste provare anche voi.

 Francesca  Tesoro

“Populismo e Democrazia” di Alfredo Esposito

“Io non sono più giovane e spesso la sensazione è quella di essere proprio vecchio. (…) Ma tu, caro lettore, forse hai ancora una vita davanti e puoi ancora provarci. Ingiustizia, iniquità, guerra sopraffazione, ignoranza, distruzione ambientale non sono cose inevitabili, non sono scritte nel libro del Fato e tanto meno in qualche legge di natura. Un mondo migliore forse è ancora possibile. Ora tocca a te provarci”.

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Si conclude così, dopo un nostalgico omaggio che ricorda qualche strofa de “Il vecchio e il bambino” di Francesco Guccini, il libro “Populismo e Democrazia”, Youcanprint-Selfpublishing di Alfredo Esposito, fisico e dirigente in una società di servizi informatici, ma anche autore che abbiamo imparato ad apprezzare per la sua capacità di analizzare con lucida semplicità anche le tematiche apparentemente più complesse.

Questo nuovo volume scaturisce dalla curiosità verso alcuni fenomeni geo-politici che stanno caratterizzando l’intero Globo negli ultimi anni e che, quindi, sembrano non avere diretta attinenza col mondo del lavoro, ma che, di fatto, lo influenzano molto. A partire dalla lettura di alcuni articoli che analizzano la crescente sfiducia dei cittadini verso la “competenza” in ambito politico, di cui è stata dimostrazione lampante l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, Alfredo Esposito cerca di spiegare quali sono le cause dell’attuale crisi della democrazia. La fuga dalla politica da parte del ceto medio dei cittadini ha provocato l’avanzata del cosiddetto populismo, termine dalla forte accezione negativa dovuta ai presunti fini esclusivamente propagandistici del fenomeno, ma che caratterizza la nascita, in tutto il mondo, di una serie di movimenti politici che si rivolgono alla pancia delle persone, più che alla loro testa e toccano fasce di popolazione profondamente turbate da anni di crisi economica. Ma prima di spiegare più concretamente in cosa consiste il fenomeno del populismo e il suo ingresso nei palazzi del potere, l’autore si sofferma sulla nascita della democrazia, facendo un excursus storico dall’Acropoli di Atene, al secolo dei Lumi, fino ad oggi che, dopo un ventennio di predominio della scienza e della divulgazione, l’ultima crisi economica e il divario sempre più grande tra i mercati della piazza e i tavoli dell’alta finanza, hanno reso la percezione della realtà da parte dei cittadini persino più tragica della realtà stessa, già non facile.

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Il populismo, che nasce dall’esasperazione della democrazia, sta, secondo l’autore, soffocando la democrazia stessa e le radici di questo fenomeno si trovano in primo luogo nella distruzione della scuola pubblica e della cosiddetta televisione generalista, soppiantata da quella commerciale che ha asservito, di conseguenza, tutto quello che è comunicazione e divulgazione giornalistica. Se a tutto ciò sommiamo le mancate promesse di una certa politica e la diseguaglianza provocata dalla globalizzazione degli ultimi anni, oltre al ruolo di Internet e alla manipolazione che solo il Web rende possibile, comprendiamo come, nei secoli la storia sia stata scritta dai vincitori e quanto, nell’ottica populista, sia importante essere “vincitori” tutt’oggi, anche a costo di non avere nessun rispetto dei più deboli. Dall’insieme di queste dinamiche così complesse e così legate fra loro, scaturiscono i problemi della società di oggi, dovuti da una parte alla crisi della democrazia e, dall’altra, all’avanzata del populismo: l’aumento del razzismo, il senso costante di instabilità, l’egoismo, la paura del diverso, la crisi ambientale e il desiderio crescente di riarmo nucleare.

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Seppur apparentemente tortuoso in alcuni punti, il messaggio che Alfredo Esposito vuole dare alle generazioni future è chiaro e nasce dalla consapevolezza del fallimento della sua stessa generazione, quella che poteva fare dei diritti civili e dei valori nati dopo i regimi e i conflitti mondiali una tendenza da non invertire mai più per il bene dell’umanità, ma che in questo ha mancato. Ciò che l’autore vuole trasmettere è tutto nelle poche righe con cui abbiamo iniziato e che sono la sua accorata conclusione nel libro: la democrazia, quella vera, che ha radici di un passato lontanissimo, deve crescere ed evolvere per venire incontro alle generazioni di oggi. Ma anche i giovani che hanno in mano il futuro del mondo devono credere fermamente che valga la pena di sostenere valori e diritti universali a ogni costo e sopra ogni cosa, senza lasciarsi andare alla facile aggressività di chi vorrebbe nutrirsi delle difficoltà della gente schermandosi dietro a un popolo che non avrebbe bisogno di populismo, ma di equità.

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L’elenco delle soluzioni dell’autore è lungo: più istruzione alla portata di tutti, più controllo su mercati e finanza, più attenzione ai diritti delle persone che sono più importanti degli affari, più rispetto delle leggi, più attenzione per l’ambiente e meno sfruttamento e diseguaglianze sociali; ma questo elenco, di fatto, non si conclude, è ancora aperto, come un sogno a occhi aperti che deve ancora diventare realtà. Alfredo Esposito, infatti, ha paura di non distinguere il falso dal vero, come il vecchio della canzone di Guccini, ma crede fermamente che sciogliere il nodo che oggi sembra legare democrazia e populismo sia possibile e dipenda dall’impegno delle nuove generazioni. Magari anche con un pizzico di poesia.

Alessandra Rinaldi

“Simone Weil. Umanizzare il lavoro” di Maria Forte


Quale può essere il legame tra la filosofia e il mondo del lavoro? E come può una filosofa dell’inizio del 900 parlare del”umanizzazione del lavoro, trovando una perfetta applicazione nei giorni nostri? Per quanto possa sembrarvi ardito, le risposte a queste domande le troviamo nel libro “Simone Weil Umanizzare il lavoro” scritto con passione dall’autrice Maria Forte, edito dalla Pazzini Editore.

Maria Forte è una docente di storia e filosofia di un noto liceo di Latina, ha insegnato presso l’Istituto di Scienze religiose “Paolo VI” e si interessa della formazione dei docenti.

Simon Weil invece è una scrittrice e pensatrice francese del primo novecento, che si definiva «professoressa girovaga tra la classe operaia», docente di filosofia anch’essa che, nel pieno dell’avanzamento dei totalitarismi in Europa, decise di vivere sulla propria pelle la condizione della classe operaia di allora, sperimentandone l’oppressione sociale.

Il pensiero di Weil era già arrivato in Italia a metà dello scorso secolo grazie ad Adriano Olivetti e Franco Fortini che avevano cominciato a tradurre i suoi scritti, creando un legame invisibile ma indissolubile tra lei e il pensiero innovativo ed umano dell’azienda di cui Olivetti è stato artefice.

A cavallo tra il 1935 e il 1935 Simone Weil abbandona gli studi e diventa operaia in diverse fabbriche francesi e da questa esperienza nascono una serie di scritti dai quali emerge tutta la profondità della sua esperienza lavorativa. Il suo intento era quello di “coniugare pensiero e azione, formazione intellettuale e impegno a favore degli oppressi”, rendendosi così conto di come fare l’operaio significava essere schiavi e vivere una condizione di schiavitù – non solo morale – agli occhi del resto della società.

La Forte pone al centro di questo libro il tema del lavoro e il pensiero di Simone Weil, dimostrando come l’esperienza della fabbrica sia diventata una vera e propria ricerca socio-antropologica vissuta in prima persona dalla filosofa francese. Attraverso gli anni passati fianco a fianco agli operai, inglobata in tempi serratissimi, azioni ripetitive e disumanizzazione dell’uomo, la Weil vive un personale periodo di evoluzione intellettuale e spirituale che l’hanno portata a cambiare tutta la sua prospettiva sulle cose e  il senso della vita. 

E per quanto possa sembrare lontano da noi, le riflessioni di allora e la puntuale analisi e contestualizzazione dell’autrice, fanno di questo libro uno spaccato dei tempi moderni.

Nei capitoli del volume vengono affrontati il tema dello sradicamento dell’operaio, un estraneo servilmente legato al denaro che diventa merce per garantire la sopravvivenza, costretto in un sistema che è privo e lo priva di umanità, appiattendolo.

La Weil comprende come la via per il riscatto non sia quella degli scioperi o delle rivoluzioni ma sia la salute morale degli operai, consapevoli  della loro dignità umana, in grado di pensare ed agire.

Emerge la delusione della filosofa francese nei confronti della politica, dei partiti rivoluzionari e dei sindacati che non fanno nulla per liberare gli operai dalla condizione di oppressione, lasciati in una sorta di torpore spirituale. Ed altrettanto forte affiora l’idea che l’unica strada efficace e radicale per risollevare la condizione operaia è l’operazione culturale e l’educazione alla Bellezza, unica cosa che può arrivare al cuore del problema, liberando gli operai dal pensiero e dal senso di inferiorità derivante dalla subordinazione e dalla povertà. 

Maria Forte riporta ai giorni nostri la ricerca della libertà autentica in alternativa all’oppressione di cui la Weil aveva scritto nel ’34, costituita dal rapporto tra pensiero e azione, perché “disporre delle proprie azione non significa agire in modo arbitrario, ma pensare il proprio agire”.

L’uomo viene spronato ad essere fautore della propria esistenza, in quanto capace di creare ed essere intelligente che non deve soccombere alle macchine automatiche. Il lavoro (libero) deve trovare le sue radici nella ricerca e nello studio, in un equilibrio tra lo spirito (umano), l’oggetto e la collettività da cui tutto dipende che, per quanto sia immateriale, diventa l’agente di sopraffazione più potente.

Il  Pensare è l’elemento cardine, dove manca si genera l’oppressione, il suo esercizio diviene antidoto alla dominazione e all’oppressione, perché se gli individui pensano mentre agiscono, la società sarà meno cattiva e questo non può essere affidato solo alle persone di buona volontà, perché questo sillogismo deve essere un approccio sistemico condotto dalla ragione e allargato a tutti.

Il lavoro è una via di accesso privilegiata nel mondo, la cultura, la scienza e la tecnica non possono rimanere pure astrazioni e deve essere esso stesso considerato come un valore umano, portatore sano di dignità che rende l’uomo libero e consapevole.

Per Simone Weil contra l’uomo, concretizzazione di dignità e diritti, consapevole del suo esistere come singolo e nella collettività, interprete dei processi che lo circondano e non mero strumento, educato al bello e capace di pensare ed agire.

Oggi come allora, l’umanizzazione del lavoro è tornato ad essere un tema di cui parlare, di fronte le nuove forme di schiavitù (non solo lavorative) che attanagliano la società, per la necessità di rivendicare quei diritti fondamentali dei lavoratori che oggi più che mai conosciamo e a volte facciamo finta di ignorare, convinti che non ci riguardino direttamente. 

E non crediate che tutto questo sia “solo” filosofia.

Pensateci la prossima volta che ordinerete un oggetto on-line, una pizza via app o comprerete un pomodoro al supermercato.

Francesca Tesoro

“Guidare il cambiamento organizzativo” di Umberto Frigelli

coverLo scorso 2 ottobre, presso la sede della Fondazione Telethon di Roma, a cura di David Trotti, Presidente dell’Associazione Italiana per la Direzione del Personale, AIDP, è stato presentato il libro di Umberto Frigelli, “Guidare il cambiamento organizzativo”, Edizioni Ferrari-Sinibaldi, alla presenza di Pier Luigi Celli, che ne ha curato la prefazione, e di illustri esperti del settore come Luca Lanetta, Salvatore Merando e Francesca Pasinelli che, con la loro testimonianza, hanno contribuito ad arricchire la tavola rotonda guidata da Filippo Di Nardo.

potere

Questo testo innovativo, che sta diventando un caposaldo per tutti gli addetti ai lavori, si struttura sull’analisi di tre parole chiave che l’autore, consulente di Direzione Aziendale e Psicologo del lavoro, considera fondamentali per comprendere i complessi processi di cambiamento all’interno delle aziende: potere, razionalità ed emozioni.

Ogni fase di cambiamento aziendale, infatti, per quanto sia incanalata da un progetto direzionale interno all’azienda e, allo stesso tempo, sia influenzata da tutti gli stimoli esterni dai quali nessun microcosmo, per quanto autonomo, può prescindere, dipende necessariamente dalle dinamiche di potere, reali o rappresentate, che esistono all’interno dell’azienda. Come accadeva nelle Corti medievali e rinascimentali, il cambiamento, sia dall’alto, sia dal basso, deve essere assorbito da entrambe le parti, attraverso un processo osmotico di adattamento reciproco e di coinvolgimento di tutti i soggetti, se davvero aspira a essere un cambiamento stabile e duraturo; quindi le dinamiche del potere aziendale hanno un ruolo determinante in questo procedimento spesso lungo e complicato.

Allo stesso modo, ogni fase di cambiamento deve raggiungere il proprio equilibrio, come spiega Umberto Frigelli analizzando minuziosamente molti casi pratici, sulla bilancia della razionalità e delle emozioni, due poli solo apparentemente opposti, ma che devono essere ponderati e considerati sullo stesso piano per raggiungere tutti gli obiettivi sul breve e sul lungo periodo.

razionalità

La necessità di cambiamento, infatti, al giorno d’oggi, è sempre più frenetica, soprattutto a causa delle innovazioni tecnologiche, della crisi economica e dei cambiamenti politici che stanno attraversando il nostro mondo ed è quindi necessario un approccio metodologico, sistemico o analitico, che permetta di considerare tutti gli aspetti in gioco in un contesto aziendale, mettendo sullo stesso piano la produzione e le risorse umane presenti. Ciò serve a inquadrare cosa sia realmente il cambiamento e, come spiega l’autore, a guidarlo, assecondandone le esigenze, ma senza perdere il controllo del timone durante la navigazione in mare aperto. Lo scopo è quello di evitare il cosiddetto “effetto elastico” che fa sì che un cambiamento non ben metabolizzato venga presto dimenticato, non appena concluso il progetto iniziale, riportando tutto alla situazione di partenza.

emozioni

In tutti questi processi, racconta Frigelli, il ruolo del manager e del gruppo manageriale in generale è fondamentale, sia come guida, sia come motore del cambiamento stesso, tanto nella fase di ideazione, quanto in quella organizzativa, per il presente e per il futuro dell’intera azienda.

Maria Tringali

Made in Italy: rappresentazione della precarietà

 

Che vi piaccia oppure no, che ascoltiate la sua musica o meno, Luciano Ligabue all’inizio di quest’anno ha presentato al mondo cinematografico il suo terzo film. Dopo Radio Freccia e Da Zero a Dieci, è arrivato il tempo di Made in Italy.

Pellicola,  prodotta dalla Fandango, distribuita dalla Medusa, nata nelle more dell’omonimo e precedente (concept) album del 2016, ha avuto la capacità di infrangere un tabù, raccogliendo quattro candidature ai Nastri d’Argento e vincendone uno, incassando tre milioni di euro nelle sole prime due settimane di programmazione.

Girato in poco più di un mese nell’estate del 2017 e arrivato nelle sale a gennaio, è un film crudo e vero che, con estrema schiettezza, inquadra e porta sugli schermi il disagio della precarietà di un uomo di mezza età.

Riko (Stefano Accorsi), cinquantenne della provincia emiliana è un uomo che ha sempre vissuto seguendo gli schemi preordinati della società al ritmo del tempo. Ha una moglie (Kasia Smutniak) che ama nonostante le reciproche scappatelle, ha un figlio che sarà il primo della famiglia ad andare all’università, ha un lavoro che non ama fare ma che fa bene perchè è comunque il suo lavoro ed era il lavoro di suo padre e prima ancora del nonno, come la casa in cui abita e che non potrà più mantenere. È un uomo attaccato in modo viscerale al suo paese, al suo gruppo di amici, alla sua realtà, fin quando anche lui non viene toccato dai tagli al personale nel salumificio in cui lavora e la sua crisi di mezza età diventa una crisi esistenziale molto più profonda e lacerante. 

Stefano Accorsi, è molto bravo ad impersonificare questo personaggio che, a detta dello stesso Ligabue, rappresenta un uomo attaccato alla vita, al suo mondo fatto di amici, casa e famiglia, al paese provinciale, stufo della sua ripetitività e delle ingiustizie quotidiane che riceve, che subisce la stanchezza esistenziale generalizzata e generazionale. Tratti questi che emergono continuamente nelle scene dei film e rappresentano il pensiero di ognuno di noi.

Riko, altro non è che la rappresentazione di una storia specifica che racconta lo spaccato della società odierna legato alla precarietà del mondo del lavoro e delle persone di mezza età che vivono questa tragedia nella loro vita. E con loro, le famiglie.

Perchè quando un uomo perde il suo lavoro, di conseguenza, perde la propria identità, diventando fragile e sentendosi inutile, fino a quando non prende coraggio e decide di cambiare – anche se poi nella realtà non succede così tanto spesso quanto si creda-.

Made in Italy è un film sentimentale,  perchè racconta il punto di vista di un uomo semplice, un qualunque operaio radicato nel suo paese e nel suo amore familiare che, per quanto distorto, lo caratterizza, finchè non decide di cambiare ed emigrare altrove, per salvare più che sé stesso il proprio matrimonio, la propria casa, la propria identità e dignità, per rispondere a quell’esigenza di cambiamento che ha come punto di svolta un evento drammatico prima e l’arrivo di un nuovo figlio immediatamente dopo.

Allo stesso tempo questo film è la fotografia dell’Italia contemporanea, assuefatta al un non prendersi le proprie responsabilità da una parte e all’essere abituati a subire dall’altra.

Gli attori (Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Fausto Sciarappa, Walter Leonardi, Filippo Dini, Tobia De Angelis, Alessia Giuliani, Gianluca Gobbi), guidati dal regista e dalle canzoni dell’album, mettono in scena il paese di oggi, rappresentando egregiamente uno spaccato della società, completa di tutti gli aspetti umani e materiali che normalmente viviamo nel nostro mondo normale. Un mondo bello agli occhi di tutti, ma che diventa cupo e triste agli occhi di chi è precario lavorativamente e corre il rischio di perdere tutto, compromettendo quanto si è costruito nel tempo. Negli occhi di Riko/Accorsi si legge la disperazione dell’essersi perso, la necessità di ritrovarsi, la volontà di volersi ribellare, l’amore di una moglie che fa di tutto per farlo tornare alla vita vera, il capannello degli amici intorno, ognuno con le proprie normali difficoltà.

Quando si entra in una spirale di terrorizzante senso di perdita, l’unica via per salvarsi diventa il cambiamento e se non si può cambiare nel proprio paese, si prova oltreconfine, nonostante le persone ti continuino a chiedere cosa ci fai lì?

Allora si ricomincia a vivere, ripercorrendo le tappe belle della propria vita per riprendere il controllo che si era perso, cambiando nel modo in cui prima non si era immaginato, risvegliandosi convinti di fare qualcosa che prima non si avrebbe avuto il coraggio di fare, ricostruendo quello che si era perso.

E per quanto non si possa dire che la vita è come un film, almeno per un momento possiamo vivere l’idea di ritrovare la stessa speranza di Riko nel riprendere il proprio controllo, per stare bene.

Francesca Tesoro

 

“Cambia testa e potenzia la tua azienda con la cultura digitale” di Rosa Giuffrè

Consulente di comunicazione per aziende, blogger e pioniera della cultura digitale e dell’interazione social nel mondo delle piccole e medie imprese, Rosa Giuffrè mette a disposizione degli imprenditori gran parte della sua esperienza di studiosa della comunicazione nel libro “Cambia testa e potenzia la tua azienda con la cultura digitale”, Dario Flaccovio Editore.

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Questo testo, ricco di spunti di riflessione oltre che di esercizi pratici, anche se ormai un po’ datato nella sua prima edizione del 2015, vista la velocità con cui si sono evoluti negli ultimi anni i rapporti tra mondo delle aziende e comunicazione digitale e social in particolare, è molto più di un manuale per un efficace fai da te della cultura digitale anche nella più piccola azienda. Il fatto di essere stato confezionato non per i professionisti del web, ma per dare delle coordinate irrinunciabili agli stessi imprenditori per sopravvivere a questo momento di crisi economica e di cambiamento, dà senza dubbio a questo libro una marcia in più, vista la semplicità dello stile, diretto e immediato. Al di là del racconto dei casi concreti e degli esercizi consigliati, infatti, la stessa autrice riempie le pagine di aneddoti che l’hanno riguardata in prima persona, impregnando tutto il testo di vita vissuta e quindi sempre moderna, piuttosto che di consigli tecnici a volte lontani dalla realtà.

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Il capitolo che più ci ha colpiti per la sua immortale attualità è quello che racconta, attraverso un’hashtag, il #ComunicarePositivo, sia all’interno, sia all’esterno dell’azienda, sia essa una S.P.A. con milioni di azionisti, sia essa un piccolo esercizio commerciale o una Startup. Come spiega Rosa Giuffrè, collegandosi al concetto di economia della felicità e dando un senso profondo allo slogan citato nel titolo che incoraggia gli imprenditori a “cambiare testa”, comunicare positività innesca il cosiddetto ‘effetto domino’ dal dipendente al cliente. Per farla semplice: un dipendente soddisfatto del proprio ruolo all’interno dell’azienda trasmetterà la positività del clima aziendale agli stessi consumatori in qualsiasi camp0 ed essi saranno maggiormente invogliati, a parità di condizioni, a dare fiducia a chi si pone positivo e propositivo nei suoi confronti. Ciò, naturalmente, deve trasparire attraverso tutte le “vetrine” dell’attività, siano esse sul web, su un social network o su una strada affollata per lo shopping.

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È questa vera e propria interazione reale a rendere il mondo digitale degno di essere definito una ormai sempre più consolidata cultura che va studiata, compresa e utilizzata per valorizzare un più profondo concetto di comunicazione a tutto tondo che, accanto ai fini economici, deve permeare le nostre aziende, fatte di uomini e non solo di prodotti.

Alessandra Rinaldi

“Destini e Declini” di Romano Benini

Romano Benini, autore, giornalista economico e docente di politiche del lavoro, aveva già catturato l’attenzione di Sistema Generale quando abbiamo recensito il libro dal titolo “Il fattore umano” nel quale, a quattro mani con Maurizio Sorcioni, ci spiegavano la crisi economica e le ragioni che avevano determinato le difficoltà nel mondo del lavoro.

Nel libro che presentiamo oggi invece,  “Destini e Declini”, pubblicato sempre dalla Donzelli Editore,  questa volta leggiamo una appassionata, intrigante ed affascinante analisi della crisi, non solo economica, dell’Unione Europea.

Vi chiederete, come fa un libro che parla di crisi ad essere definito così positivamente?

Per il parallelismo svelato già dal sottotitolo “L’Europa di oggi come l’Impero romano?”

Benini in modo puntuale ed accurato espone la  crescita e la crisi del continente europeo di oggi instaurando un parallelismo con l’Impero romano, evidenziando dei tratti comuni, nonostante la grande differenza temporale. 

Per quanto possa sembrare strano, è una operazione ben riuscita. 

Analizzando il fastoso passato dell’Impero, culla di straordinari avanzamenti storici e burocratici,  l’autore espone, sempre con una scrittura accessibile, gli avvenimenti recenti di una Europa in difficoltà e spiega cos’è la crisi e il motivo per cui può diventare essa stessa prima declino e poi vera e propria decadenza.

Per prevenire questo assioma declino-decadenza, Benini ne indaga il suo funzionamento, i suoi fattori scatenanti, il significato a livello sociale, perché, come dice lui stesso nell’Introduzione, misurare il mondo europeo attraverso la sua storia e il confronto tra le storie diverse dei popoli che ne fanno parte, serve a rintracciare l’identità e la vocazione europea che al giorno d’oggi sembra essere offuscata dagli eventi materiali ed economici.

Di per sé le crisi sono frutto della difficoltà di affrontare e superare un momento di passaggio e, com’è stato per l’Impero romano, così lo è per l’Europa dei giorni nostri.

Perché il parallelismo con l’Impero romano?

Tanto storicamente quanto di fatto è l’unica grande esperienza sovranazionale del continente che abitiamo e, nel paradosso della distanza temporale, ci sono degli avvenimenti che possono essere messi a confronto e usati come lezione per il nostro prossimo futuro europeo.

Pensiamo all’esempio che riporta lo stesso scrittore: la crisi dell’Impero romano ha le sue radici nell’incapacità di gestire le ondate migratorie dei visigoti che cercavano di invadere massivamente i territori imperiali volendo diventare romani.

Allo stesso modo, la crisi economico-politica dell’Unione Europea è iniziata con il cambio di millennio che ha progressivamente indebolito la nostra identità comune culminata, nel 2008, con la crisi prettamente economica che ha ulteriormente allontanato le nazioni e i popoli tra loro, i quali hanno anche subito il fatto di non essere stati protagonisti di una politica fiscale ed economica condivisa e coordinata anche e soprattutto alla luce dei forti flussi migratori provenienti dai continenti confinanti.

Questo allontanamento ha determinato una successiva crisi di identità europea, facilmente identificabile  con l’emergere del populismo, dei partiti xenofobi, delle ostilità tra i vari paesi. A questi elementi bisogna necessariamente anche affiancare il fatto che in siffatta situazione  sono venute meno anche quelle competenze europee che creavano un valore aggiunto. All’indebolimento delle competenze, dell’identità socio-culturale, del sentirsi integrati in qualcosa di superiore -l’Essere Europa, appunto-, lo stato di crisi è avanzato a dismisura.

Ripercorrere la crisi, il declino e la decadenza che  l’Europa ha già conosciuto durante l’epoca romana,  ci aiuta a capire e chiarire il nostro presente, illuminando e  offrendo nuove strade da percorrere.

In questo contesto di analisi, un  primo passo importante è quello di capire cosa sono realmente la crisi, il declino e la decadenza e quali sono i loro parametri di riferimento.

La crisi è una fase di passaggio e di trasformazione, la perdita di ricchezza umana e sociale che immediatamente si identifica con quella economica, rappresentata dalla perdita di ricchezza e di opportunità ed è per questo motivo che il suo modello di riferimento diventa il capitale economico.

Il declino riguarda la perdita dei legami sociali, della conoscenza e delle relazioni che a loro volta determinano un venir meno della capacità di reagire e quando non si riesce a gestire una singola difficoltà, un problema diventa più invasivo e generale, in grado di aggredire tutto quanto è stato costruito fino ad un determinato momento. Per questa ricostruzione, il parametro di riferimento del declino  diventa quello sociale e culturale: sentendosi meno forti di prima, si perde fiducia, sicurezza e senso del futuro.

La decadenza, infine, è il sintomo del declino divenuto irreversibile e si ha quando diviene ormai difficile e molto complicato, se non impossibile, rideterminare la connessione tra reddito, capacità e conoscenza. Quando la convinzione di costruire il proprio futuro insieme agli altri si trasforma nell’idea opposta che per il proprio futuro si debba per forza di cose andare contro gli altri,  viene meno l’identità comune e di conseguenza ci si chiude e si diventa diffidenti, trasformando tutto ciò che è al di fuori di noi stessi un potenziale nemico. Alla decadenza consegue la disgregazione, come  un vero e proprio processo degenerativo.

In realtà i fattori della crisi, del declino e della decadenza di cui si parla Benini, non sono estrapolati dal solo confronto con la Roma e l’Europa di secoli fa, ma a ben vedere, emergono da un documento ufficiale della Commissione Europea che diventa la chiave di lettura di questo parallelismo storico. Il documento di cui riportiamo noi e di cui l’autore fa una ottima analisi, è il RCI (Regional Competitiveness Index), ovvero il rapporto ufficiale con cui viene misurata la capacità dei singoli paesi europei. Il quando che emerge dal RCI è disarmante. 

Tra i paesi della UE ci sono palesi ed enormi differenze che spesso travalicano i confini nazionali in senso opposto riguardando anche singole regioni degli stati stessi, evidenziando come la fragilità dell’identità economica sociale e culturale sia stata determinata dall’assenza di politiche economiche, culturali e sociali e dal contestuale fallimento delle misure introdotte dal 1999 al 2014 per favorire la coesione tra gli stati. Nonostante i risultati della nuova scommessa di integrazione che riguarda la fascia temporale 2014-2020 non siano ancora evincibili, è chiaro che la mancanza di regole e prospettive comuni sono un fattore costante e che le cose non andranno tanto meglio rispetto ad oggi se non verrà attutato un vero e proprio cambio di rotta. 

Ma l’autore non vuole disegnare solo un quadro a tinte fosche, anzi, nelle pagine di questo libro davvero interessante, ipotizza anche quale sia la via per superare la crisi socio-economico-culturare di cui siamo tutti testimoni.

Quale antidoto al “Destino e al Declino”?

Provate ad immaginare, cos’è che crea l’apertura mentale verso qualcosa di nuovo senza il bisogno di averne paura?

È la formazione che deve partire dal mondo della scuola, dal mondo dell’innovazione che, partendo dai livelli più semplici della società deve creare una nuova forma di relazione. La formazione è la via di fuga da questa crisi perdurante e radicata perché esclusivamente attraverso essa si può (ri)organizzare una Europa sociale per creare una educazione, una integrazione un senso comune e l’apertura verso gli altri, siano essi cittadini europei di nascita, di derivazione o per accoglienza.

Come i romani riuscirono a riemergere dalla crisi nello stesso modo riportando il proprio Impero ai fasti precedenti, così l’Europa di oggi deve ripartire dal basso per costruire nuovamente le identità perdute e questo lo si può fare solo in un modo.

Attraverso la Formazione.

Francesca Tesoro