“Lavoro” di Stefano Massini

Lavoro: nel terzo millennio come suona questa parola?

Si può parlare di lavoro in molti modi e il libro di Stefano Massini, edito dalla Il Mulino, intitolato “Lavoro” esplora i meandri di questo concetto da una prospettiva del tutto inedita.

Leggendo questo testo, sembra decisamente di essere seduti in una platea teatrale, di fronte un palco, sul quale Massini con maestria e semplicità racconta le varie sfaccettature di questa parola diventata nel tempo un vero e proprio concetto.

Stefano Massini, consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, ha analizzato nei vari capitoli di questo il libro il significato intrinseco e profondo di questa parola, mantenendo uno stile simpatico, nonostante scriva di una cosa al quanto difficile.

Usando figure storiche conosciute dai più, siano esse realmente esistite e nate dalla penna di indiscutibili scrittori, rappresenta agli occhi di tutti un sentiero tanto impervio quanto suggestivo.

Citando personaggi che vanno da Cicerone a Prometeo, da Karl Max a Sant’Agostino, da Robin Hood al Dr. Jekyll e Mr Hyde, l’autore delinea l’idea e il senso del lavoro associandolo ogni volta ad un particolare aggettivo qualificativo.

“Una parola scura”.

Si delinea la considerazione che nel tempo il lavoro è stato oscurato da una patina opaca, riportando il pensiero umano dal disincanto all’aspetto critico e polemico, andando a coincidere in senso figurativo con una ferita scoperta e dolorante.

“Una parola complessa”.

Lavoro è un sostantivo che identifica tanto una azione che il suo prodotto o quel luogo in cui le azioni vengono svolte per arrivare a produrre un determinato elemento, più o meno aleatorio, con fatica e costi non solo economici ma anche fisici e mentali.

“Una parola vitale”.

Lavoro quindi sono” è un postulato molto concreto e fisiologico che identifica come ognuno di noi lavori per la necessità di procurarsi un sostentamento e pochi lo fanno per esclusivo piacere. Si esplicita così una delle tante corruzioni della parola lavoro, che perde il suo essere un naturale bisogno per diventare addirittura un valore di eccezione e, in certi casi, di eccellenza.

“Una parola ingombrante”.

Il lavoro, nel tempo, ha perso il suo essere strumento per sopravvivere ed è diventato quasi l’identificativo di uno status simbol, venendo percepito come un dovere con l’esclusiva funzione di maturare un reddito, svuotato del suo valore più intrinseco a livello relazionale.

“Una parola tecnica”.

E’ innegabile che la tecnologia sia diventato un elemento portante della nostra società da terzo millennio. A livello concettuale e fattivo la tecnologia ha assunto un ruolo (apparentemente) imprescindibile, radicale e irreversibile, per cui sembra quasi che senza più tecnologia non esista lavoro o tipologia di esso normalmente esercitabile. In modo del tutto speculare, l’inquietante presenza della tecnologia sempre più qualificata disarciona l’essere umano cosciente e pensante dalla funzione lavorativa, con la deificazione della macchina a scapito della manodopera umana.

“Una parola straniera”.

Nella nostra era di contaminazione lanciata al galoppo, ci si imbatte sempre più spesso in declinazioni di provenienza anglosassone di tutto ciò che è e riguarda il lavoro. Il rischio concreto di perderne i veri e tradizionali significati, con tutto quello che storicamente comportano, allenta il più profondo legame tra mestieri e territorio, snaturando gli uni e gli altri: work, job, flexibility on job, job on call, voucher work, job sharing, work in progress, task forces, think thank e così via.

“Una parola scordata”.

Si, perchè un tempo il mestiere era un crisma difficilmente scalfibile, un momento essenziale per essere e sentirsi uomini e donne liberi. Oggi il lavoro viene percepito come un obbligo, quasi un peso, un qualcosa di limitativo, sinonimo di sforzo, ingiustizia sociale e mal digerita sottomissione. Quando c’è.

In effetti, per quanto anacronistico possa sembrare, in una Repubblica fondata sul lavoro si assiste alla contrapposizione tra il lavoro e i diritti del lavoratore spesso considerati accessori, se non inutili in certi malaugurati casi. Un lavoro agognato per il quale, sfido a dire diversamente, si troverà sempre quello più disperato e disposto a scendere al compromesso peggiore, a scapito di sé stesso e della retribuzione, pur di lavorare.

Nella fitta giungla del lavoro, dei lavoratori, del senso di oppressione di chi lo ha e la disperazione di chi lo perde o la ricerca spasmodica per averne uno, appare chiaro come la sintassi del lavoro abbia perso la sua grammatica umana.

Perdendo lei è come se si fosse perso tutto quel senso di speranza nel futuro, accrescimento personale, familiare e professionale, nonché la voglia di migliorare se stessi ed ambire sempre più in alto, per essere delle persone migliori.

Massini conclude il suo libro con l’inquietante paradigma che tutti noi abbiamo almeno sentito una

volta per televisione, dove le persone di Taranto dicevano dell’Ilva “Uccide, certo, ma ci dà da vivere”.

Un frammento contraddittorio e disperato dell’idea del lavoro, che prima aveva un senso, rappresentava qualcosa di veramente importante e custodiva un vago sentore di origini preziose, ma che oggi è più vicino ad un ricordo lontano e sbiadito.

Francesca Tesoro

“Welfare aziendale in un gioco in cui nessuno perde e tutti guadagnano” a cura di Bruno Di Cola, Nicola Ferrigni e Mauro Pacetti

«Più denaro in busta paga o servizi all’individuo e alle famiglie?». Dare una risposta a questa domanda è l’obiettivo che Bruno di Cola, Nicola Ferrigni e Mauro Pacetti si pongono nel testo intitolato “Welfare aziendale in un gioco in cui nessuno perde e tutti guadagnano”, Gangemi, in cui viene illustrata e approfondita la ricerca condotta dalla Uilcom nel 2013.

Il campione intervistato è considerevolmente ampio ed eterogeneo, operante in molteplici e diversi settori e i risultati sono presentati in modo meticoloso e funzionale: la classificazione avviene in base al sesso, alla classe d’età e all’area geografica di provenienza degli intervistati.

L’analisi dei dati risulta fluida grazie alla divisione in capitoli tematici e brevi paragrafi che mantengono viva l’attenzione del lettore, differenziando di volta in volta gli argomenti commentati, mentre la lettura è accompagnata dalle immagini, dai grafici e dai titoli coloratissimi che offrono brevi ma piacevoli pause.

L’indagine della Uilcom rivela uno scenario in cui le aziende si muovono a fatica nel quadro delle politiche di welfare aziendale, mostrando difficoltà a integrare il cosiddetto welfare di primo livello, quello pubblico.

Le performance peggiori coinvolgono gli aspetti legati al telelavoro e ai turni agevolati: oltre la metà del campione, infatti, dichiara l’assenza di tali facilitazioni all’interno dell’azienda.

Di Cola, Ferrigni e Pacetti scelgono di dedicare al punto di vista femminile un intero capitolo che, coerentemente con lo spirito eclettico e colorato del testo, si intitola: “chi dice donna dice… welfare?”. L’ironia del titolo contribuisce ad ammorbidire un argomento piuttosto spigoloso, infatti la disparità di genere che le donne vivono ancora all’interno dei luoghi di lavoro, soprattutto per ciò che riguarda i percorsi di carriera, è una realtà ancora difficile da contrastare. Il 60,1% della componente femminile intervistata ritiene che la donna sia costretta a rinunciare o a rimandare la maternità per il lavoro. Il lavoro delle donne, considerato accessorio fino ad alcuni decenni fa, è oggi indispensabile per garantire un reddito sufficiente al nucleo familiare, oltre che per ottenere l’indipendenza economica, ma spesso accade che le lavoratrici madri siano ritenute inaffidabili a causa delle assenze legate alla cura della famiglia e dunque escluse da percorsi formativi e di carriera.

I curatori del testo sottolineano come un buon sistema di welfare aziendale fornirebbe un determinante contributo alla riduzione delle disparità di genere, offrendo alle lavoratrici un’azione concreta ponendo le basi per una reale condizione di pari opportunità, oltre che per un concreto sostegno alle cure familiari.

Nel volume è presentato il fenomeno nei suoi tratti generali, vengono approfonditi i singoli aspetti attraverso i vari capitoli tematici, si spiega come il sistema di welfare possa diventare un elemento strategico per la conciliazione e, allo stesso tempo, lo strumento più efficace per aumentare l’occupazione femminile e migliorare la qualità del lavoro di donne e uomini.

In conclusione, il libro di Di Cola, Ferrigni e Pacetti è da considerarsi uno strumento utilissimo per informarsi sul mondo del welfare aziendale.

Cecilia Musulin

“Così è… probabilmente” di Giulio D’Agostini e Dino Esposito

Il saggio, l’ingenuo e la signorina Bayes è il sottotitolo di questo libro, dallo stile leggero e diretto, nonostante tratti temi non proprio di facile comprensione, almeno per me!

Il libro “Così è… probabilmente” di Giulio D’Agostini e Dino Esposito edito da Il mio libro appare molto simile a una sceneggiatura che lascia correre l’immaginazione, fermando la mente del lettore su concetti di straordinaria importanza scientifica spiegati e ragionati in maniera impeccabile.

Provare, anzi, leggere per credere.

Il volume inizia con una breve descrizione che contestualizza tutti i dialoghi seguenti nell’ufficio di Alberto, dirigente di azienda, con Giorgio e Laura, suoi giovani collaboratori, che, sull’orlo di una crisi di nervi, cercano una soluzione ad un problema aziendale legato alla sicurezza.

L’interazione dei personaggi e i loro ragionamenti sulla probabilità, disegnano un divertente quadretto, disquisendo aspetti importanti legati al decision making.

Attraverso voli pindarici che vanno dalla trasmissione dei virus, al sorteggio delle palline, passando per il poker, il gioco delle scatole ed esperimenti empirici, chiudono il cerchio con il famoso Teorema di Bayes.

Quello che emerge da questo libro non è quanto possa essere giusto o sbagliato il valore della probabilità, ma l’importanza del valore conferito ad una determinata cosa e quanto si creda in essa, quale che sia la motivazione per cui si è giunti a tale convinzione, perché per assegnare un valore di probabilità ci si deve comportare secondo modelli morali, consistenti e coerenti.

Sembra una astrazione ed invece è un dato di fatto che tutti i giudizi di plausibilità, probabilità o, ancora, di vero somiglianza sono alla base delle azioni umane.

Ecco allora che prende corpo l’idea che le decisioni si costruiscono e non si prendono e che il teorema di Bayes diventi, in un certo senso, la trasposizione numerica del dato empirico che “spinge” una persona verso una ipotesi o un’altra.

Inconsciamente siamo abituati ad usare e valutare l’utilità di modelli che servono per orientarci e organizzarci.

Attraverso l’esperienza cerchiamo di connettere il passato al futuro, interrogando i dati con gli strumenti che abbiamo a disposizione per trovare le soluzioni più congeniali, così gli accadimenti del passato diventano filtro per i possibili modelli futuri. Alcuni vengono valutati inidonei per proseguire nel loro intenti, altri hanno bisogno di modifiche, altri ancora vengono investiti del significato di verità.

In fondo, il giudizio delle decisioni non riguarda tanto il risultato, ma l’uso appropriato che si fa delle informazioni in nostro possesso, in base alle competenze che si posseggono. E sapete perché? Perché le probabilità fisiche assumono il significato di quanto noi crediamo in qualcosa solo se siamo sicuri del loro valore. Sembra un cane che si morde la coda, vero?

Sappiate che ci sono dei valori di probabilità sui quali ognuno è libero di pensarla come vuole. Poi, ci sono altre probabilità che sono logicamente connesse alle altre.

Il teorema di Bayes diventa allora una delle connessioni che impone in modo coerente la teoria delle probabilità.

In effetti questo teorema, oltre ad essere matematicamente semplice, una volta che viene assimilato, corrisponde alle regole del buon senso e ha la capacità di insegnare a persone razionali e non dogmatiche a mutare il loro grado di convinzione alla luce dei nuovi dati.

Allora, quando bisogna prendere delle decisioni diventa importante fare un’analisi accurata di quante e quali probabilità ci siano di commettere errori e prevedere la conseguenza di essi. Soprattutto a livello aziendale, dove essere miopi e guardare solo al “domani o dopodomani” dell’azienda per massimizzare gli utili, senza pensare a situazioni strutturate nel tempo, può diventare probabilmente un problema.

La ragione della centralità del ragionamento probabilistico è che le decisioni non dipendono soltanto dagli eventi ipotizzati e dalla loro utilità in senso lato, ma traggono origine in modo cruciale da quanto crediamo che le diverse ipotesi possano verificarsi.

Di conseguenza se calcolassi male le probabilità, le mie decisioni potrebbero essere sbagliate.

Per fortuna, in quanto esseri umani dotati di coscienza pensante, nel prendere decisioni seguiamo risvolti morali e valori etici che vanno oltre semplicistici calcoli matematici e i comportamenti non etici che abbiamo oggi, ci seguiranno nel futuro.

Anche la migliore persona del mondo, davanti ad una decisione particolarmente difficile usa e sceglie il principio di precauzione ed è altrettanto giusto che quando in ballo ci siano decisioni importanti, si rifletta bene.

In campo aziendale (e questo Alberto, seduto alla sua scrivania con un occhio al cellulare e uno alla lavagna usata per schematizzare i ragionamenti, lo spiega benissimo) massimizzare l’utilità attesa va bene, ma le cose si complicano quando nel “gioco” ci sono altri “giocatori” con le loro priorità e probabilità. In questo caso bisogna considerare anche quello che loro, avversari o concorrenti, hanno nelle loro menti affinché non vada tutto perduto.

Alberto Giorgio e Laura sono riusciti a convincermi che quello di cui loro parlano, è molto vicino all’approccio sistemico che secondo me dovrebbe essere usato in tutto quello che facciamo perché più è complessiva la nostra visione di una determinata cosa, più ci crediamo, più è possibile che quella cosa accada proprio come l’abbiamo programmata. È una questione di probabilità.

Dite di no? Io credo di sì, perché “Così è… probabilmente”.

Francesca Tesoro

“Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori” di Luca Pesenti

Negli ultimi anni si sta addensando un crescente consenso circa l’idea che l’impresa possa funzionare in modo più efficiente se riesce a “leggere” i bisogni che emergono intorno e dentro il suo perimetro. Tale sillogismo parte dalla considerazione che il lavoratore diviene il punto di congiunzione più rilevante tra l’azienda e il mondo esterno, ovvero il primo stakeholder di cui ogni impresa dovrebbe prendersi cura. Questo è il principale concetto espresso da Luca Pesenti nel suo libro “Il welfare in azienda, imprese smart e benessere dei lavoratori”, Vita e Pensiero.

L’autore, attraverso un’interessante sintesi di dati relativi alla situazione italiana e alla sua comparazione con quella di altri paesi europei, mostra come nel nostro Paese non si sia verificato il processo di innovazione e ricalibratura delle politiche capace di adeguarle alle nuove esigenze.

Il sistema di welfare italiano si conferma inadeguato a fronteggiare i nuovi rischi legati all’indebolimento del modello di benessere sociale e alla crisi della crescita economica.

Perciò, mentre aumentano i bisogni, il sistema economico crea sempre meno ricchezza e, di conseguenza, sempre meno risorse spendibili dal sistema welfare per far fronte ai nuovi bisogni.

Nel definire puntualmente tutte le caratteristiche del contesto in cui il nuovo welfare aziendale si sviluppa, Pesenti cita alcuni autori che si concentrano su tematiche e concetti innovativi creando i presupposti per dirottare il welfare aziendale verso nuove e inaspettate direzioni. È il caso, ad esempio, del tema dell’Industry 4.0 su cui si orientano Annalisa Magone e Tatiana Mazali raccontando le interrelazioni fra uomo e macchina, tipiche dell’ambiente cyber-fisico e capaci di aumentare il grado di innovazione e diminuire i costi di produzione.

Il libro di Pesenti è caratterizzato da uno stile ampio e discorsivo in cui i frequenti tecnicismi inducono il lettore a soffermarsi con attenzione sugli argomenti che si susseguono e, allo stesso tempo, conferiscono al testo un taglio piuttosto specialistico. Questo aspetto è sapientemente bilanciato dall’autore attraverso un capitolo dedicato alle fasi necessarie per la realizzazione di un piano di welfare.

Spesso i libri offrono spunti teorici che richiedono ulteriori approfondimenti operativi.

Il testo di Pesenti invece si presenta come uno strumento di orientamento, quasi una guida, che spiega in modo schematico ma esaustivo tutti i passaggi da realizzare e le variabili a essi collegate.

Una costante del libro è il riferimento all’importanza dell’analisi dei bisogni, all’ascolto della popolazione aziendale come prerequisito fondamentale per l’elaborazione di un buon piano di welfare.

Si tratta di un tema molto sentito perché nelle future imprese smart, caratterizzate da ampie basi tecnologiche che richiedono la massima specializzazione delle professioni, le condizioni complessive di benessere del lavoratore diventeranno sempre più rilevanti per le sorti dell’impresa stessa. In quest’ottica Pesenti sostiene che un presupposto importante per l’efficace realizzazione di questa nuova tipologia aziendale sia la capacità di costruire piattaforme definite smart welfare. Si tratterrebbe di un welfare intelligente disegnato a partire dai reali bisogni della popolazione aziendale, personalizzato e non standardizzato.

La prospettiva di un vero e proprio menu di servizi fra cui i lavoratori possano scegliere quelli più adatti alle loro esigenze, appare molto allettante ma ancora piuttosto utopistica, considerando che le ricerche mostrano una scarsa attenzione per la lettura dei bisogni, effettuata solo dal 23,8% delle aziende che offrono uno o più servizi di welfare ai propri dipendenti.

Il libro di Pesenti costituisce una base, un solido punto di partenza per innescare il processo che potrebbe trasformare l’utopia in realtà.

Cecilia Musulin

 

“Il fattore umano” di Romano Benini e Maurizio Sorcioni

Romano Benini, giornalista economico e docente di politiche del lavoro, e Maurizio Sorcioni, laureato in scienze statistiche, responsabile dell’area Studi e ricerche di Italia Lavoro, ci spiegano “Perchè è il lavoro che fa l’economia e non il contrario”.

Il loro nuovo libro dal titolo “Il fattore umano” edito dalla Donzelli, con linguaggio tecnico ma accessibile, ci illumina sulla crisi economica e sulle ragioni che hanno determinato le difficoltà nel mondo del lavoro.

Prendendo spunto dai dati e dai fenomeni registrati in Italia e in Europa, dei cambiamenti sociali ed in particolare nel mondo del lavoro, i due autori hanno disegnato, con estrema precisione, le fasi della crisi economica che tutti noi abbiamo, purtroppo, iniziato a conoscere a partire dal 2008.

La loro analisi, scandita nei vari capitoli che costituiscono il volume, passa anche attraverso le scelte fatte in materia di riforme che, attraverso il confronto con altre realtà europee, fa emergere le criticità del nostro paese.

Vi chiederete, perchè in un libro che analizza la crisi economica e le diverse strategie degli stati europei, si parla del fattore umano?

Semplice, leggendo quanto scritto da Benini e Sorcioni, appare evidente come i paesi che hanno scelto la linea dei minori investimenti nella formazione, nell’innovazione, nei servizi e nelle politiche per il lavoro, nell’attivazione e nella promozione sociale, non sono stati in grado di contrastare la crisi e di rimanere competitivi.

Paesi come la Germania e il Regno Unito che hanno investito su questi fattori, invece, sono riusciti a compensare gli effetti della crisi, dell’alto carico fiscale e del costo del lavoro, creando non solo le condizioni per una ripresa occupazionale, ma riuscendo metaforicamente a cavalcare la crisi, uscendone sicuramente meglio di come ci erano entrati.

Quello che appare evidente è nel nostro paese c’è (stata) una crisi di sistema e la chiave per riuscire ad uscirne dipende dalla capacità che l’Italia torni a fare sistema, attraverso il lavoro e la qualità della produzione di beni e servizi.

L’aver scelto politiche di sostegno momentaneo piuttosto che investimenti strutturali sul fattore umano negli anni più delicati della crisi finanziaria, ha sicuramente determinato un ritardo sulla possibilità di agganciare la ripresa e creare le condizioni per il prossimo sviluppo.

Benini e Sorcioni ci fanno capire perché il nostro paese ha perso la sfida della qualità del lavoro, del capitale umano e dell’innovazione.

I due autori spiegano nel loro libro ciò che riguarda il deficit nelle tecnologie informatiche, il ritardo della pubblica amministrazione, i mancati investimenti, l’aver sottovalutato la formazione continua del capitale umano e il funzionamento del mercato del lavoro.

Numerosi studi hanno infatti dimostrando come siano proprio questi i veri aspetti che incidono sul reale aumento della produttività e, di conseguenza, sullo sviluppo.

In un sistema come il nostro, strutturalmente non pronto, la crisi del 2008 non ha fatto altro che accelerare e favorire le condizioni di declino già presenti.

Al contrario la Germania, nello stesso periodo in cui l’Italia perdeva terreno, ha investito in modo impressionante sul fattore umano, rendendo evidente come siano stati questi stessi investimenti a migliorare la sua competitività e la forza della sua economia.

In Italia invece, la sfida del lavoro è stata intrapresa con molti anni di ritardo rispetto agli altri paesi europei, scegliendo oltretutto delle misure e degli interventi che andavano in una direzione completamente opposta. I fatti storici degli ultimi dieci anni, hanno dimostrato come la mancata capacità di governare e il non aver promosso lo sviluppo umano sono in sintesi il problema che ha impedito all’Italia di uscire dalla crisi.

Si parla della debolezza della classe politica che ha determinato una netta separazione tra legislazione e politiche del lavoro, identificabile come una delle cause dei mali della nostra economia. Le riforme con il freno a mano o fatte a metà, hanno accompagnato e (forse) favorito la crisi del lavoro italiano, in un panorama dove persiste un sistema di interessi che ostacola il cambiamento.

Per questo appare fondamentale l’analisi del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro avviata dal governo Renzi che, partendo dalla convinzione che il lavoro sia il principale fattore di crescita, in grado di sollecitare lo sviluppo economico, mira a diminuire le diseguaglianze sociali.

Viene delineato un disegno molto ambizioso e originale che si pone l’obiettivo di affrontare la questione del lavoro a tutto tondo, perchè nel passato gli interventi in materia sono stati troppi e frammentari, senza riuscire a creare un sistema strutturale competitivo e in grado di rispondere ai mutamenti economici e sociali.

Il sillogismo che emerge da queste pagine è che non sarebbe il lavoro a dipendere dalla crescita economica ma, viceversa, la crescita economica a dipendere dalla partecipazione al lavoro e dall’accesso alle competenze.

Anche gli economisti più autorevoli sostengono che è l’ambiente a determinare le condizioni dello sviluppo, perciò in qualche modo bisognerà dargliene ragione.

Appare dunque chiaro che la relazione tra fattore umano, le vocazioni produttive locali, la qualità del made in Italy e la capacità di esportare, sono i fattori che generano la ricchezza italiana costituendone la potenzialità più evidente.

Altrettanto palese è che però ancora non siamo riusciti a coglierli in pieno, adoperandoli per superare la crisi.

Superare la crisi significa cogliere questa potenzialità, mettendo insieme formazione delle competenze, sistemi locali e capacità di innovare.

Insomma, un libro da leggere per capire quali sono stati gli errori del passato da non commettere nuovamente nel futuro, sperando di riuscire a recuperare il tempo perduto e soprattutto per promuovere quel “fattore umano, una sfida per il nostro paese ancora in buona parte da vincere”.

Francesca Tesoro

“Lezioni di Marie Curie. La fisica elementare per tutti”
Appunti raccolti da Isabelle Chavannes

Come si possono insegnare le basi della fisica a ragazzini di età compresa fra i dieci e i quindici anni? Qual è il metodo migliore per catturare la loro attenzione e trasmettergli la passione per una disciplina complessa e dettagliata? La risposta viene fornita dagli insegnamenti di Maria Skłodowska, chiamata dai suoi allievi Marie Curie, premio Nobel per la fisica nel 1903.

Tra il 1907 e il 1908, per iniziativa della studiosa, un gruppo di scienziati e umanisti dell’università della Sorbona conduce un’originale esperienza di insegnamento rivolta ai propri figli e ad alcuni dei loro amici, tra i quali Isabelle Chavannes, ai cui meticolosi appunti, sopravvissuti alle guerre e recuperati per caso, si deve la pubblicazione del libro “Lezioni di Marie Curie. La fisica elementare per tutti. Appunti raccolti da Isabelle Chavannes” Dedalo.

Ciò che emerge subito dalla lettura del testo è la particolarità del metodo usato da Marie Curie, concentrata sull’insegnamento di una fisica orizzontale in cui l’allievo impara provando, vedendo e soprattutto sperimentando.

La studiosa prepara esperimenti accessibili ai giovani studenti facilitandone l’apprendimento e l’assimilazione attraverso esempi vicini alla loro esperienza quotidiana. È il caso della spiegazione relativa alla distribuzione del peso su un giogo a bracci ineguali, introdotta dal riferimento al gioco del dondolo su cui si siedono due bambini di peso diverso.

Il libro assume valore nel contesto attuale non solo per la particolarità della testimonianza ma anche per il fatto di costituire un significativo e straordinario esempio di insegnamento. Il metodo di Marie Curie, infatti, può essere considerato come spunto per un’efficace erogazione di contenuti formativi.

Le domande sono il vero motore dell’apprendimento mentre l’aula diventa un laboratorio, un luogo dove si lavora insieme, si compiono esperimenti e si elaborano soluzioni.

La studiosa mostra un approccio che appare come un’efficace compenetrazione di informalità, condivisione e autorevolezza. I piccoli allievi fanno merenda con tartine, tavolette di cioccolato e arance mentre discutono collettivamente sul loro operato, allo stesso tempo, se necessario, vengono redarguiti sull’ordine, la pulizia e la correttezza dei calcoli: “Bisogna arrivare a non sbagliarsi mai. Il segreto è di non far troppo in fretta”.

Da Marie Curie possiamo apprendere inoltre la metodologia che prevede una spiegazione graduale e la capacità di coinvolgimento attraverso effetti scenici che catturano l’attenzione degli allievi. Grazie a lei i principi astratti dei manuali assumono un carattere pittoresco e insolito, addirittura divertente.

Ci sono però due ingredienti fondamentali su cui si basa l’insegnamento di questa studiosa: la passione per la scienza e la propensione per l’impegno. Due elementi che non si possono insegnare ma che Marie Curie è riuscita a trasmettere. Non a caso la piccola autrice degli appunti da cui è nato il libro ha lavorato per buona parte della sua vita come ingegnere chimico. Una simile carriera era ancora rarissima all’epoca.

Cecilia Musulin

“Impresa Impossibile” di Corrado Formigli

“Storie di italiani che hanno combattuto e vinto la crisi”, recita in modo emblematico il sottotitolo del libro di Corrado Formigli, edito da Mondadori nella collana Strade Blu, intitolato “Impresa Impossibile”, che racconta le storie di chi, in tempo di crisi, ha trovato il coraggio di cambiare le cose, andare avanti e raggiungere obiettivi formidabili.

Con stile fluido e leggero l’autore racconta otto storie di otto imprese diversissime tra loro, per area geografica, per oggetto di produzione, per dimensione.

Aziende che hanno come denominatore comune imprenditori con la voglia di farcela e che, coraggiosamente, hanno affrontato la crisi nel migliore dei modi, sfruttandola come trampolino di lancio verso il futuro.

Un futuro voluto, cercato e disegnato attraverso la competenza e la perseveranza delle persone che rappresentano, secondo Corrado Formigli, il vero Made in Italy.

Un manifesto per l’imprenditore che ha paura di crescere, un esempio per cambiare le carte in tavola e diventare dei vincenti nel mondo dell’imprenditoria e del fare azienda, senza calpestare niente e nessuno, travalicando il pessimismo che permea tuttora questo settore a causa della crisi.

Corrado Formigli ha girato in lungo e in largo l’Italia, imbattendosi in realtà fatte di persone che credono profondamente in quello che fanno, che si tratti della piccola impresa definita agro-chic o quella super tecnologica che produce aerei invidiati da Cina e Corea.

Leggendo questo libro si scoprono realtà aziendali lontane da qualsiasi stereotipo e che neanche si immaginano, create dal nulla o risollevate dallo sprofondo nelle quali erano cadute.

C’è l’imprenditore quarantenne che è diventato il “nuovo mito dei bikers fighetti di mezzo mondo”, producendo nella piccola provincia accessori per motociclette che appena terminati vengono imbarcati su arei e spediti in mezzo mondo.

E c’è la storia di Pietro, a mio avviso la più bella.

Lui, che ha cominciato a cucinare a tredici anni, poi uno stage da Vissani e uno da Marchesi, che appena diciottenne ha frequentato la scuola del più grande chef francese, diventando poi lo chef dell’hotel a sette stelle di Dubai.

Lui, che è tornato nella sua Campania per aprire il suo ristorante facendo un patto con i contadini della zona. Non ci si crede che al giorno d’oggi qualcuno abbia il coraggio di rifiutare ingaggi milionari per tornare nella propria terra d’origine ed aprire un ristorante, creando una filiera a chilometro zero, usando i prodotti della propria terra, grazie alla fatica di giovani contadini che coltivano i prodotti seguendo le antiche tradizioni.

Pietro, in una provincia dove tutto sembra sbagliato, è riuscito a restituire l’orgoglio e la voglia di fare, diventando un eroe, perché paga i prodotti della fatica e della terra più dei supermercati, continuando a credere le persone sono il vero valore aggiunto del proprio ristorante.

Pietro, come gli altri raccontati in questo libro, non sono comandanti in capo, ma donne e uomini che quando parlano della loro azienda e delle loro storie fanno trasparire amore vero per quello che fanno.

Imprenditori convinti che “le persone vengono prima dei loro progetti”, dove conta il coraggio e “chi ci lavora si sente coinvolto nel processo come partecipasse alle Olimpiadi, all’impresa della vita”.

Quelli raccontati da Corrado Formigli sono luoghi dove non si capita “per caso”, ma solo attraverso la fatica e il sacrificio.

Il sacrificio di persone che hanno rischiato, che si sono messe in gioco fino allo stremo e che hanno vinto, che sono riuscite a restituire un’anima a ogni oggetto prodotto, cominciando a solcare la strada del successo, facendo riemergere enormi potenziali soffocati, nonostante intorno a loro ci fosse una crisi culturale ed economica che toglieva ad altri la voglia di fare.

In questo libro non c’è spazio per i sogni distrutti dalla recessione, c’è il coraggio di chi ha scelto di rimanere e di dare la possibilità ad altri ragazzi, a volte poco più piccoli degli imprenditori stessi, di non emigrare e di non perdersi, ma di rimanere ed avere la possibilità di mettersi alla prova in base al merito, dimostrando che, se viene offerta l’opportunità, l’eccellenza è facile da trovare e diventa propulsione per andare avanti.

Mentre leggevo questo libro mi è sembrato di parlare davvero con queste persone che Formigli definisce “generose, creative, orgogliose ed egocentriche”, creatrici di prodotti speciali, con visioni curiose, geniali e a volte un po’ folli, ma mai stanche di provarci.

Persone che sono state in grado di far saltare quell’im dalla parola impossibile, facendola diventare possibile.

Francesca Tesoro

“L’evoluzione del welfare aziendale in Italia” a cura di Filippo Di Nardo

Welfare e azienda rappresentano due ambiti di interesse apparentemente distanti che sembrano aver trovato una felice conciliazione nelle politiche di welfare aziendale, soprattutto nell’ultimo anno, come ci spiega Filippo Di Nardo nel suo ultimo saggio, “L’evoluzione del welfare aziendale in Italia”, Guerini Next.

Il modello italiano di welfare stato-centrico è stato messo duramente alla prova dalla sostenibilità finanziaria unita alla nascita di nuovi bisogni sociali. L’aumento della popolazione anziana, l’inadeguatezza dei salari rispetto alle spese per i servizi sostitutivi del lavoro domestico, per la cura dei bambini e per l’assistenza familiare, lo sgretolarsi della famiglia tradizionale, caratterizzata da stabilità e solidarietà intergenerazionale, hanno progressivamente condotto verso nuove esigenze che le aziende si sono trovate a dover fronteggiare arrivando ad assumere un vero e proprio ruolo sociale.

Filippo Di Nardo, giornalista esperto di mercato del lavoro, ci offre una panoramica di questa evoluzione in cui il modello di welfare statale sta cedendo sempre più terreno al cosiddetto welfare mix, caratterizzato dalla compenetrazione di pubblico e privato. La dimensione relazionale in cui il welfare aziendale trova espressione è quella fra impresa e lavoratori ed è proprio su questo duplice rilevamento che punta la ricerca di Doxa per Edenred del 2016 esaminata dall’autore.

Analizzando il punto di vista dei due attori principali, imprese e lavoratori, Di Nardo illustra uno studio ad ampio spettro sui programmi di welfare aziendale, esplorando in modo approfondito i servizi offerti dalle aziende, rilevandone l’offerta attuale e l’interesse futuro, facendo un bilancio sugli obiettivi e sulle difficoltà riscontrate per la diffusione e la gestione dei programmi di welfare, ma anche esaminando le prospettive di sviluppo di tali programmi e la notorietà delle agevolazioni regolamentate dall’articolo 51 del TUIR. Secondo l’autore la chiave di volta è costituita dal confronto fra le diverse posizioni di aziende e lavoratori, in cui la sintesi e la comparazione costituiscono un ulteriore strumento di orientamento nel panorama del nuovo welfare aziendale.

Leggendo quella che Di Nardo ha definito mappa delle priorità si scoprono tutti gli aspetti che i lavoratori prediligono. Un dato che ho trovato particolarmente interessante è la preminenza della flessibilità di orario, grazie alla quale i lavoratori potrebbero bilanciare più efficacemente la vita lavorativa e quella privata. Si tratta di un aspetto con cui ognuno di noi si confronta quotidianamente: inevitabilmente gli impegni privati si accumulano nel fine settimana che si esaurisce troppo in fretta, oppure spesso il lavoro invade il tempo libero attraverso i telefoni e i computer che non ci abbandonano nemmeno sulle spiagge durante le ferie estive.

Quello del “work-life balance” è diventato un tema attuale proprio perché i lavoratori considererebbero più funzionale riuscire a distribuire gli impegni privati anche nella settimana lavorativa. Attraverso il libro di Di Nardo il lettore ha la possibilità di scoprire il modo in cui le aziende stanno cercando di andare incontro a queste esigenze, quali sono i progetti in fase di sviluppo e quelli già sperimentati.

In quest’analisi attenta e approfondita, i dati raccolti e catalogati aggiungono valore all’argomento trattato senza appesantirlo, proprio grazie alla duplice prospettiva che contribuisce a rendere la lettura più dinamica e scorrevole anche per un lettore non esperto. Di Nardo, infatti, attraverso un approccio meticoloso e razionale, informa approfonditamente il lettore su tutte le sfaccettature del welfare aziendale, in modo tale da farlo arrivare preparato alle conclusioni del saggio, in cui sono inserite tutte le novità legislative relative all’argomento e permettendo così a chiunque di formarsi un’opinione oculata in merito, esaminando da vicino un’ampia fotografia della situazione attuale, in cui lo scambio lavoro – benessere sta progressivamente sostituendo lo scambio lavoro – retribuzione.

Cecilia Musulin