La sicurezza (dal latino “sine cura“: senza preoccupazione) ci consente di essere o di sentirci esenti dai pericoli o ci permette di prevenire, annullare o mitigare i danni, i rischi o comunque evenienze spiacevoli.
Godendo della sicurezza, si potrebbe essere certi che ogni azione non potrà produrre eventi avversi. Tuttavia, considerando la natura umana come prettamente sistemica ed interdipendente da un fattore arbitrariamente complesso di variabili, il concetto di sicurezza totale, ovvero la completa assenza di pericoli, risulta difficilmente traducibile nella vita reale.
Per questo motivo, nella sua storia evolutiva, l’uomo ha sempre elaborato metodi per qualificare e quantificare l’incertezza e di conseguenza i rischi, sviluppando in modo più o meno strutturato delle norme di sicurezza in grado di rendere più difficile il verificarsi di eventi dannosi e consentendo una migliore qualità della vita.
Le dimensioni della sicurezza così come le sue percezioni sono molteplici ed includono quelle individuali, sociali, organizzative, sanitarie, economiche e politiche.
Garantire la sicurezza è un obiettivo strategico per tutti gli stati e le organizzazioni sia pubbliche che private e, come è richiesto dalla complessità in cui operano, questo richiede un approccio sistemico.
Nel contesto produttivo e dei servizi, gli aspetti da prendere in considerazione per garantire la sicurezza riguardono la cornice legislativa -le regole- entro la quale si svolgono le attività, le tecnologie, i processi ed il capitale umano necessari alla realizzazione del valore.
La base comune a tutti questi ambiti è il ruolo pervasivo e determinante delle informazioni e della loro corretta gestione e questo è il motivo per cui la cybersecurity è divenuta l’asset strategico per garantire la sicurezza delle organizzazioni.
La Direttiva NIS 2016/1148 (Network and Information Security), approvata nel 2016, è volta a stabilire le misure per la realizzazione in Europa di un ambiente digitale sicuro e affidabile.
In particolare, la direttiva si rivolge a soggetti, pubblici o privati, che forniscono servizi essenziali per la società e l’economia nei settori sanitario, dell’energia, dei trasporti, bancario, delle infrastrutture dei mercati finanziari, della fornitura e distribuzione di acqua potabile e delle infrastrutture e servizi digitali.
La sicurezza sociale e la libertà degli individui costituiscono altresì un bene irrinunciabile e la Direttiva GDPR (General Data Protection Regulation) interviene appunto nella disciplina riguardante il trattamento e la circolazione dei dati personali. Il Regolamento ha imposto un cambiamento di prospettiva rispetto alla protezione dei dati personali introducendo principio dell’accountability. Esso impone alle organizzazioni una gestione aziendale responsabile che tenga conto dei rischi connessi all’attività svolta e che sia idonea a garantire la piena conformità del trattamento dei dati personali ai principi sanciti dal Regolamento e dalla legislazione nazionale.
Negli ultimi anni le minacce cyber sono divenute sempre più numerose ed efficaci dal punto di vista criminale. Uno dei problemi più cogenti è rappresentato dai data breach che sottraggono in modo fraudolento dati, anche sensibili, dalle banche dati di industrie, enti pubblici ed organizzazioni di ogni genere. I data breach rappresentano un danno spesso ingente per le organizzazioni e oggi, alla luce delle norme previste dal Regolamento, possono essere causa di multe consistenti.
La buona notizia è che in Italia è stata redatta un’importante linea guida in grado di supportare le organizzazioni che necessitano di strategie e processi volti alla protezione dei dati personali e alla sicurezza cyber [1]. Si tratta di un interessante approccio integrato con il quale è possibile implementare sistemi di sicurezza delle informazioni idonei sia per la protezione dei dati personali che per quelli operazionali e strategici delle imprese e delle amministrazioni. Il denominatore comune consiste proprio nella cybersecurity e il framework può aiutare le organizzazioni nel definire un percorso volto alla sua implementazione ed alla protezione dei dati coerente con i regolamenti stessi riducendo i costi necessari ed aumentando l’efficacia delle misure realizzate. Inoltre, per le organizzazioni che già implementano misure coerenti con i Regolamenti e Direttive (GDPR e NIS), il Framework può rappresentare un utile strumento per guidare le necessarie attività di continuo monitoraggio.
Nella sua essenza, il Framework definisce il ciclo di vita del processo di gestione della cybersecurity in modo integrato, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo:
IDENTIFY – comprensione del contesto aziendale, degli asset che supportano i processi critici di business e dei relativi rischi associati. Tale comprensione permette ad un’organizzazione di definire risorse e investimenti in linea con la strategia di gestione del rischio e con gli obiettivi aziendali
PROTECT – implementazione di quelle misure volte alla protezione dei processi di business e degli asset aziendali, indipendentemente dalla loro natura informatica.
DETECT – definizione e attuazione di attività appropriate per identificare tempestivamente incidenti di sicurezza informatica.
RESPOND – definizione e attuazione delle opportune attività per intervenire quando un incidente di sicurezza informatica sia stato rilevato. L’obiettivo è contenere l’impatto determinato da un potenziale incidente di sicurezza informatica.
RECOVER – definizione e attuazione delle attività per la gestione dei piani e delle attività per il ripristino dei processi e dei servizi impattati da un incidente. L’obiettivo è garantire la resilienza dei sistemi e delle infrastrutture e, in caso di incidente, supportare il recupero tempestivo delle business operation.
[1] Framework Nazionale per la Cybersecurity e la Data Protection CIS-Sapienza – Research Center of Cyber Intelligence and Information Security – Sapienza Università di Roma – CINI Cybersecurity National Lab Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica – Versione 2.0 – Febbraio 2019
Secondo la teoria di
Thomas Malone, il coordinamento è quel lavoro extra che si svolge
quando attori (soggetti) multipli ed interdipendenti lavorano per un
obiettivo comune e che non sarebbe necessario se l’obiettivo fosse
raggiunto con il lavoro di un singolo attore. Il coordinamento è
dunque uno dei pilastri fondanti di una organizzazione vista come un
insieme di soggetti connessi e interdipendenti per il perseguimento
di obiettivi comuni.
Ogni attore
dell’organizzazione ha la responsabilità del suo agire, ovvero
deve mostrare congruenza con un impegno assunto o con un
comportamento, accettandone ogni conseguenza. Anche l’organizzazione,
d’altra parte, ha sua la responsabilità nell’identificare
l’obiettivo e nel lavorare per il suo perseguimento. Che rapporto
è possibile definire tra queste responsabilità individuali ed
organizzative?
Accettare le conseguenze
di un comportamento o di un impegno si declina nel diritto come la
situazione per la quale un individuo può essere chiamato a
rispondere della violazione colposa o dolosa di un obbligo. Allo
stesso tempo, le organizzazioni possono essere ritenute responsabili,
in caso di reati a vantaggio dell’organizzazione stessa, dagli
individui che la compongono.
Esistono leggi
internazionali che intervengono proprio in quest’ambito stabilendo
in quali circostanze un reato compiuto da un dipendente possa
coinvolgere anche la responsabilità dell’azienda cui appartiene.
In Italia il Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 introduce e
disciplina la responsabilità amministrativa derivante da reato degli
enti collettivi. È il caso di figure apicali (amministratori,
dirigenti, funzionari, etc) e di personale sotto la loro diretta
sorveglianza.
E’ interessante
soffermarsi su come l’Azienda possa agire in modo conforme alla
legge sia prevenendo le situazioni favorevoli al reato del singolo
che intervenendo sul sistema impresa in modo che la stessa ostacoli
la sua diffusione.
Allo scopo della
conformità alla legge, le aziende implementano Il modello di
organizzazione e gestione che indica un modello organizzativo
volto a prevenire la responsabilità penale degli enti.
Esempi di reati previsti
dalla legge includono quelli commessi nei rapporti con la Pubblica
Amministrazione, i delitti informatici e trattamento illecito di
dati, i delitti di criminalità organizzata, i delitti contro
l’industria ed il commercio, i reati societari, di ricettazione e
riciclaggio.
La
realizzazione del modello di organizzazione e gestione
consiste nel individuare le attività nel cui ambito possono essere
commessi i reati, predisporre specifici protocolli per la prevenzione
degli stessi, costituire un organismo di vigilanza e prevederne gli
obblighi di informazione nei suoi confronti ed infine introdurre un
sistema disciplinare per sanzionare il mancato rispetto delle misure
indicate nel modello organizzativo.
L’implementazione del
modello richiede un approccio sistemico nel quale si tengano presenti
in modo coerente gli aspetti organizzativi, legali e tecnologici.
L’organizzazione deve
essere permeata dalla cultura del controllo non quale momento
repressivo, ma soprattutto quale opportunità di miglioramento
continuo dell’attività stessa verso il conseguimento di obiettivi
sia economici che etici. L’elaborazione di codici di comportamento
è sicuramente essenziale per dotare l’organizzazione dei necessari
strumenti per affrontare i rischi connessi ai reati così come un
sistema di procedure per regolamentare le attività operative e
amministrative significative.
Ad esempio, sarà
necessario disporre di procedure per la gestione degli acquisti
diretti e indiretti (compresa la fase di selezione e qualifica dei
fornitori) in modo che l’intero iter di valutazione e selezione del
fornitore sia strutturato secondo i principi di trasparenza e non
discriminazione e che la documentazione inerente gli acquisti
consenta di dare evidenza della metodologia utilizzata e dell’iter
procedurale seguito per l’effettuazione dell’acquisto,
dell’oggetto, dell’importo e delle motivazioni sottese alla
scelta del fornitore.
Nella nostra epoca di
trasformazione digitale delle imprese, i sistemi informatici
rivestono un ruolo strategico e di conseguenza devono essere
considerati attentamente nella realizzazione del modello di
organizzazione e gestione.
Il sistema informativo è
alla base delle attività aziendali ed è fondamentale che i ruoli
siano certificati, ovvero non modificabili senza la preventiva
autorizzazione da parte del responsabile della unità organizzativa
di riferimento e senza la preventiva valutazione dell’opportuna
segregazione dei ruoli in modo che siano distinte le responsabilità
di chi autorizza, chi esegue e chi controlla. I sistemi devono
supportare a pieno titolo il sistema dei controlli esistenti in
quanto sono strumentali alla verifica ed al monitoraggio di
specifiche fasi di gestione aziendale, con particolare riferimento a
quelle che sono state dichiarate sensibili al rischio dei reati
previsti dalla legge.
E’ altresì necessario
che gli attori con mansioni più esposte ai rischi identificati siano
sottoposti ad una costante attività di formazione erogata nei modi
più efficaci in funzione delle specifiche necessità. Essa può
svolgersi attraverso la partecipazione a riunioni, seminari,
l’affiancamento da parte di personale più esperto ed anche mediante
formazione a distanza (e-learning).
L’implementazione di un modello di organizzazione e gestione ci fornisce quindi un esempio di un approccio sistemico per la corretta gestione della responsabilità dell’individuo e dell’organizzazione. Da non dimenticare infine che i valori dell’azienda costituiscono il DNA dei comportamenti degli individui.
A giudicare dal 53° Rapporto Censis
sulla situazione sociale del nostro Paese relativo all’anno che volge al
termine e uscito pochi giorni fa, lo smartphone è il vero protagonista
della vita comunicativa degli italiani di tutte le età. Dal 2009, durante il
quale solo un timido 15% della popolazione ha iniziato ad approcciarsi a questa
nuova dirompente tecnologia del quotidiano, quest’anno quasi il 74% ne fa un
utilizzo costante, tanto da essere considerato ormai un oggetto di culto, icona
di stile e di moda, oltre che mezzo di comunicazione. Come spesso accade con le
nuove tecnologie, i pionieri dell’utilizzo sono stati i giovani under 30, ma pian
piano si è registrata un’impennata anche tra gli adulti sopra i 40 anni, tanto
che oltre il 50% dei possessori ha dichiarato di controllare il proprio
smartphone come primo gesto dopo la sveglia del mattino o come ultimo, prima di
addormentarsi.
Se il 2018 verrà ricordato come l’anno in
cui il numero di smartphone ha superato il numero di televisori nelle famiglie
italiane, quest’anno, grazie alle cosiddette smart tv, il distacco si è
accorciato nuovamente. Infatti, non solo nelle case in cui sono presenti
giovani adulti o minori si trovano device che permettono ai televisori di
collegarsi a internet: a quanto pare anche gli over 65 si stanno appassionando
a queste tecnologie e le fruttano a pieno.
Inoltre, quest’anno il numero delle
persone con diete mediatiche solo audiovisive è sensibilmente diminuito.
Il 73,5% della popolazione ha superato
il digital divide e un terzo degli italiani ha una dieta mediatica ricca ed
equilibrata, al cui interno trovano spazio tutti i principali media: audiovisivi,
a stampa e digitali, nonostante il disinteresse dei giovanissimi verso la carta
stampata resti costante.
Il rapporto Censis spiega anche come i
media siano in grado di influenzare l’umore degli italiani. I più
scontenti della società in cui viviamo sono coloro che si informano attraverso
telegiornali, giornali radio e quotidiani, mentre i più avvezzi ai social
network si dividono quasi equamente tra ottimisti (22% circa) e pessimisti (24%
circa). Facebook (48,6%) raggiunge l’apice dell’attenzione tra gli utenti
classificati come “esibizionisti”, i quali pubblicano spesso foto e video per
esprimere le proprie opinioni e stati d’animo.
Anche in tema di connettività, l’Italia
è risalita di sette posizioni rispetto al 2018, passando dalla ventiseiesima
alla diciannovesima posizione, ma per sapere se prossimamente si riuscirà a
entrare nella cosiddetta gigabit society, ipotizzata dalla Commissione Europea
e ancora molto discussa, bisognerà attendere il prossimo futuro.
Il 7 e 8 Giugno scorso, a Genova, si è svolta la novantatreesima Assemblea Nazionale di Manageritalia, intitolata “Navighiamo insieme ai Genovesi”, che si è distinta, ancora una volta, non solo per la partecipazione e l’impegno dei suoi esponenti, ma sempre più per l’obiettivo di contributo sociale e antropologico che l’Associazione vuole dare nel momento di grande difficoltà che il Paese sta attraversando. Riteniamo, infatti, che solo grazie a un investimento nelle capacità di guida e di innovazione nelle varie aree di azione può concretizzarsi una possibilità di successo e di rinascita.
Ormai da diverso tempo, ho l’orgoglio di far parte di questa comunità di managers, pionieri di un nuovo senso di responsabilità verso la responsabilità di essere cittadini del nostro Paese e, per approfondire tutte le tematiche trattate in Assemblea, vi invito visitare il seguente link:
Nel Lazio, nei primi tre trimestri del 2018 la crescita dei livelli di attività è stata più debole di quella registrata l’anno precedente.
Nel comparto industriale il fatturato è moderatamente cresciuto e gli investimenti sono aumentati. Dopo la forte crescita del 2017, le esportazioni sono diminuite, anche a causa della flessione nei comparti della metalmeccanica e della chimica. Nel settore delle costruzioni, invece, la produzione ha ristagnato, mentre in quello immobiliare le compravendite sono aumentate a un ritmo inferiore di quello medio nazionale facendo aumentare la diminuzione dei prezzi.
Dal punto di vista economico, il Pil del Lazio ha registrato una flessione doppia (-6%) rispetto alla Lombardia (-3,3%) ma, nonostante questo, Roma si attesta nella media nazionale a livello provinciale (attorno al -6%) mentre Milano cresce di un punto. Volendo citare in alternativa i termini pro-capite a Roma la flessione è ben più marcata (-15%) rispetto a quella nazionale (-9%), nonché di Milano (-6%).
Dall’inizio della crisi Roma versa in uno stato di regressione in termini di Valore Aggiunto, che segna una riduzione pari a circa il 5%, a differenza di Milano che invece marca un incremento dell’1,5%.
Diverso, fortunatamente, è il discorso legato all’imprenditoria. Infatti, sono 657.855 le imprese registrate al 31 dicembre 2018 nella regione Lazio, pari al 10,8% del totale delle imprese italiane e, se nello stesso anno le iscrizioni sono state 39.543 e le cessazioni 29.322, non si può non sottolineare un saldo positivo di 10.221 imprese. Con questi dati ed in termini assoluti, il Lazio è la prima regione italiana per crescita del numero delle imprese, seguita da Campania e Lombardia.
In via generale, tutte le province del Lazio registrano un valore positivo e superiore alla media nazionale (+0,52%), con Roma capofila in Italia che, nel 2018, ha registrato un +1,81% – pari a 8.916 imprese in più -, facilmente traducibile con il tasso di crescita più alto tra le province italiane e più del triplo rispetto alla media italiana.
Se le società di capitali rappresentano ancora la percentuale maggiore di imprese registrate nonostante il continuo calo che si è avuto nel corso degli anni, va sottolineata la continua crescita delle imprese individuali.
Spostando l’analisi sul mercato del lavoro, l’occupazione è aumentata (+1,2%) ma a un tasso inferiore a quello registrato nel 2017 e, al calo degli occupati nei servizi e nelle costruzioni, si è contrapposta una crescita nell’industria e in agricoltura. L’aumento ha interessato i lavoratori dipendenti, soprattutto a tempo determinato e contemporaneamente si assiste all’aumento del tasso di disoccupazione che tocca quota 11,9%. Questo dato dipende anche dalla riduzione del fenomeno dello scoraggiamento, cioè dell’entrata nel mercato del lavoro da parte di popolazione attiva fino a quel momento rinunciataria, motivo per il quale i dati evidenziano una diminuzione del 4,3% degli inattivi.
A questo punto un doveroso accenno va fatto ad uno dei settori produttivi che alimentano l’economia di Roma, e cioè il turismo, perché prendendo spunto dai dati di performance della capitale, possiamo fare una panoramica sul posizionamento mondiale di Roma relativamente a 6 indicatori.
Tra gennaio e agosto le presenze turistiche nella Città Metropolitana di Roma sono aumentate del 3,1% su base annuale, rappresentando circa il 90% del totale regionale.Nonostante le potenzialità nel turismo, va detto che Roma si posiziona al 4° posto – dietro Berlino – per numero di pernottamenti con un trenddi crescita in rallentamento a differenza della media europea. La permanenza media degli stranieri negli esercizi ricettivi con un range che va dai due ai sei giorni, rappresenta una curva negativa considerevolmente inferiore ad altre capitali europee – si pensi che Londra e Amsterdam hanno una permanenza media di rispettivamente 6,2 e 3,9 giorni -. Analogamente, analizzando l’indice delle conferenze e degli eventi business, che rappresentano una componente ad alto valore aggiunto della filiera turistica in termini sia economici che strategici, dove lo spendinggiornaliero pro-capite è circa 5 volte quello di un turista tradizionale, Roma si posiziona solo 20esima come numero di eventi. A titolo meramente esemplificativo, gli eventi in questo settore organizzati sono stati appena novantasei nell’anno 2016, pari a circa la metà di quelli organizzati nella città di Parigi.
Prendendo ad esempio i due benchmarkrappresentati da Parigi e Londra per fornire una panoramica del posizionamento di Roma, si riporta la situazione relativamente a 6 indicatori.
Una situazione certamente non esaltante e che fotografa in maniera impietosa lo stato di Roma. Riassumendo: Roma è una città che non ha saputo rimanere agganciata al treno delle principali capitali europee in termini di branding, innovazione, qualità della vita e cultura ma, nonostante questo, riesce a distinguersi per il maggior numero di imprese e di lavoratori, anceh se la ricchezza prodotta risulta essere inferiore.
La velocità del cambiamento nell’economia, le nuove tecnologie, le tipologie contrattuali meno “solide” stanno creando un senso molto forte di incertezza sulle prospettive reddituali future delle famiglie e in particolare dei giovani che restano i più penalizzati in termini di opportunità lavorative. I numeri presentati testimoniano infatti una riduzione delle SpA (-13%) e un’esplosione della micro-impresa in settori a basso valore aggiunto come Commercio ambulante (+30%) e Affittacamere (+150%). Molte grandi aziende stanno riposizionando e modificando le loro strategie di investimento, penalizzando Roma che in questa fase non gode di una buona immagine come “città d’affari”. Ma, oltre all’impatto negativo delle grandi imprese che lasciano la città, il danno più rilevante deriva dalle nuove imprese che non riusciamo ad attrarre. In controtendenza ai dati sopra citati, invece, abbiamo segnali di sviluppo consistenti che si registrano nel mondo delle start up innovative e nell’economia della conoscenza, con un utilizzo di forza lavoro qualificata ben al di sopra della media nazionale. Nel Lazio, tra il 2012 e il 2016, la quota di occupati in possesso di una laurea si è attestata in media al 26,1%, determinando un valore più contenuto della media UE-28 (33,0%) ma superiore alla media nazionale (20,2%). Roma è il primo polo universitario italiano per numero di studenti (14% del totale), con il gruppo economico-statistico che conta il maggior numero di iscritti, anche se poi nel World University Ranking Roma si posiziona al 65° posto.
La capacità innovativa del Lazio è più elevata della media nazionale, grazie a una buona dotazione di capitale umano occupato di elevata scolarizzazione e specializzazione e alla ricerca svolta dalle istituzioni pubbliche. Malgrado ciò, appare persiste un sentimento di minor soddisfazione per l’attività innovativa delle imprese.
Roma può contare su una rete di circa 20 tra incubatori ed acceleratori, 12 Fab Labs, 5 Technology Transfer Centers, più di 50Smart Working Centerse più di 20 associazioni ed istituzioni con specifici programmi imprenditoriali dedicati alle start uptecnologiche.
Alla fine del 2018 nel Lazio erano iscritte al Registro delle imprese delle Camere di Commercio 1079 start up innovative, circa il 10% del totale nazionale, di cui 969 localizzate nella provincia di Roma, rendendo così questa regione la seconda per numero di start updopo la Lombardia (2417).
l’importanza di questi dati, ha portato Manageritaliaa presidiare da alcuni anni il settore delle start upinnovative, con iniziative nazionali e progetti territoriali.
Lo scorso anno è iniziato in versione sperimentale un progetto che chiamato “Start Up & Hope”, con l’intento di portare nelle ultime classi delle scuole superiori la metodica più innovativa oggi presente per creare start up. Il progetto ha avuto come partner l’Associazione Nazionale Presidi e Lazio Innova e, per facilitarne l’ingresso nelle scuole, il progetto è stato presentato ammissibile all’iniziativa governativa “Alternanza scuola-lavoro”.
Sono state così realizzate sessioni informative/formative in 26 istituti superiori di Roma e del Lazio, incontrando più di 1200 studenti. Le idee presentate dagli studenti, attraverso progressivi filtri che ne hanno definito meglio le caratteristiche e la fattibilità, hanno dato vita a 16 idee progettuali. Di queste sei sono diventate progetti d’impresa e, alla fine del processo di affinamento e selezione, due dei progetti sono stati portati in pre-incubazione presso Lazio Innova.
Il programma di inter scambio europeo con più di trent’anni di storia alle spalle, strumento di sviluppo territoriale ed economico con alla base l’obiettivo primario di avvicinare i cittadini europei alle meraviglie del nostro continente, conosciuto come “Capitale della Cultura Europea”, quest’anno ha incoronato la città di Matera.
Per capire bene di cosa stiamo parlando, ripercorriamo un po’ di storia….
Inaugurata nel giugno del lontano 1985 grazie all’iniziativa dell’allora Ministro della Cultura greco Melina Mercouri, questa manifestazione ha attraversato gli anni divenendo una delle celebrazioni europee che hanno avuto più successo e impatto, nonché i maggiori risvolti sociali ed economici, grazie all’importante visibilità – non solo turistica- che ha determinato per le singole realtà locali che vi hanno partecipato nell’arco degli anni.
Se inizialmente le destinazioni designate erano città medio grandi che già avevano un riflesso di internazionalità e di fama culturale o turistica, il punto di svolta si ebbe negli anni novanta.
La designazione di Glasgow nel 1990, infatti, dimostrò per la prima volta come tale manifestazione potesse radicalmente cambiare quelle realtà non affermate turisticamente o addirittura sconosciute a livello europeo – questa città in quegli anni era una semplice realtà industriale in declino – usando la cultura come strumento di rigenerazione economica e sociale, riuscendo, addirittura, a far mutare l’immagine percepita a livello internazionale.
Questa esperienza spostò il focus sull’importanza delle ricadute nel lungo periodo per le realtà designate, favorendo l’espansione di una coscienza europea e la valorizzazione delle città selezionate. Così, si decise di creare una rete volta allo scambio e alla diffusione delle informazioni per gli eventi futuri. Ne seguì un ingente studio sull’impatto positivo ricevuto dalle città prescelte negli anni precedenti arrivando, nel 1999, a ribattezzare la manifestazione conosciuta come “Città Europea della cultura” nella odierna “Capitale Europea della Cultura”, determinandone il formale finanziamento istituzionale con il “Programma Cultura 2000”.
Ad opera del Parlamento Europeo, l’evento dedicato alla “Capitale Europea della Cultura” fu integrato completamente nel quadro comunitario e venne introdotta una procedura di selezione per le manifestazioni che si sarebbero tenute dal 2005 al 2019, modificata poi con una successiva direttiva del 2006 per il restante periodo dal 2007 al 2019.
Data l’importanza della designazione delle capitali europee della cultura, a partire dal 2011, si è voluto ampliare il beneficio che ne discendeva a livello locale, modificando l’unicità della scelta e permettendo ogni anno la designazione di due capitali della cultura contemporaneamente.
Qual è l’importanza di Capitals of Culture?
Rendere anche piccoli centri urbani capitali della cultura, comporta un grande risultato. Significa, attraverso la cultura e l’arte, migliorare la qualità della vita di queste città e rafforzare il senso di comunità locale, nazionale e internazionale, permettendo ai cittadini di prendere parte attivamente allo sviluppo culturale della propria città e ai cittadini – non solo – europei di conoscere realtà che sarebbero rimaste fuori dai normali itinerari turistici e culturali.
Capitals of Culture, infatti, determina benefici reali e duraturi che vanno dalla crescita economica per l’economia locale, tanto in via diretta quanto indiretta, alla costruzione del senso di comunità e di rigenerazione delle singole realtà coinvolte, promuovendo la coesione e incoraggiando la comprensione e il rispetto reciproci, senza dimenticare le infinite connessioni europee che può generare attraverso progetti con partner internazionali e scambi culturali.
Come si diventa Capitale Europea?
Partecipare a questo evento prevede un grande lavoro alle spalle, fatto non solo di progettazione. Prima di tutto ogni città che intende candidarsi deve soddisfare criteri decisamente rigidi suddivisi in due categorie: la “Dimensione Europea” e la “Dimensione Città e Cittadini”. La prima mira al rafforzamento della cooperazione tra gli operatori, mettendo in evidenza la ricchezza della diversità culturale europea e gli aspetti condivisi delle culture europee, la seconda invece ha lo scopo di suscitare interesse pubblico per l’evento a livello locale, nazionale ed europeo, prevedendo uno sviluppo culturale a lungo termine della città.
Il vero e proprio processo di selezione si articola in quattro fasi.
La prima riguarda essenzialmente la presentazione delle domande, per cui, fermo restando che tutti i paesi dell’Unione Europea possono partecipare, quelli interessati pubblicano un bando nazionale – in Italia tali bandi vengono emessi dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, meglio conosciuto come MIBACT -, affinché le città interessate possano parteciparvi. Tale presentazione delle candidature deve avvenire almeno sei anni prima dell’evento al quale segue il termine di dieci mesi entro cui le città intenzionate a partecipare devono rispondere.
La seconda fase è quella della preselezione. Cinque anniprima dell’inizio dell’evento, la giuria di selezione si riunisce per esaminare le proposte e restringere la rosa delle città che saranno invitate a proseguire il processo. La giuria è composta da 13 esperti: sette nominati dal Parlamento Europeo, dal Consiglio, dalla Commissione e dal Comitato Europeo delle Regioni, mentre i restanti sei sono scelti dai paesi europei interessati.
Nel termine dei nove mesi successivi alla prima riunione di selezione, la stessa giuria si riunisce per esaminare i progetti delle città candidate, determinando la shortlist delle prescelte. Tali città riceveranno dalla commissione giudicatrice una relazione in cui vengono formulate una serie di raccomandazioni, realizzando la terza fase del processo, chiamata selezione finale.
L’ultima fase è quella della designazione, cioè la scelta ufficiale delle due città europee – non dello stesso stato – che saranno capitali della cultura, alla quale segue una fase di monitoraggio con l’ausilio di esperti nominati dalle Istituzioni UE che hanno il compito di aiutare le location prescelte ad attuare i propri programmi. Tale monitoraggio si articola di due momenti, uno a medio termine – generalmente due anni prima dell’evento – per la valutazione dei progressi compiuti nella preparazione e nella dimensione europea, l’altro definito finale perchè avviene entro e non oltre gli otto mesi precedenti l’evento, per prendere atto e valutare lo stato dei lavori preparatori.
Il percorso di Matera
Il sogno di Matera 2019 è iniziato nel novembre del 2012 quando il MIBACT pubblicò il bando per la presentazione delle candidature rivolto alle città italiane. Quell’anno risposero ben ventuno città, determinando il maggior numero di candidature in assoluto in un unico paese europeo.
Il processo di valutazione delle candidature è stato condotto da una giuria di selezione composta da membri appartenenti al Regno Unito, alla Spagna, all’Austria e all’Estonia, oltre che dagli esperti italiani.
Riunitasi a Roma nel novembre 2013, la giuria ha proceduto alla selezione delle città italiane, tra le ventuno iniziali, che maggiormente rispecchiavano gli obiettivi dell’azione comunitaria determinando la lista finale delle delle città italiane preselezionate: Cagliari, Lecce, Matera, Perugia, Ravenna e Siena.
Immediatamente dopo ha preso vita la seconda fase per cui, nei primi giorni di ottobre 2014, i rappresentanti della giuria di selezione, i rappresentanti del MIBACT e della Commissione Europea hanno visitato le città preselezionate constatando quanto effettivamente avessero maturato lo standard europeo richiesto e che permetteva l’accesso all’esame finale.
La giuria, quindi, effettuate le opportune valutazioni ha proposto Matera al titolo di capitale europea della cultura, ritenendola la migliore candidata tra le città italiane.
Il dossier di candidatura di Matera ha rappresentato l’occasione per definire un complesso di progetti e iniziative volte a rendere la Basilicata una regione attenta alla valorizzazione dei beni culturali e soprattutto impegnata nella rimozione delle barriere di accesso al patrimonio culturale, per mezzo dell’impiego delle nuove tecnologie. L’adozione sistematica di misure orientate a sostenere un modello di sviluppo territoriale imperniato sulla cultura e basato su un processo partecipativo diffuso della cittadinanza, ha fatto la differenza. Matera 2019 è diventata “Open Future” cioè ha realizzato la volontà di voler costruire il futuro attraverso lo sviluppo di nuove competenze nel settore culturale, con la conseguente creazione di nuove professionalità, di posti di lavoro e di politiche orientate allo sviluppo, all’allargamento e alla diversificazione del settore culturale. Il concetto di “Open Future” si riallaccia strettamente a quello trasversale che ha attraversato tutta la proposta di candidatura della creazione di forme culturali aperte, inclusive e accessibili.
La giuria ha ravvisato che il progetto culturale proposto da Matera fosse particolarmente valido per il miglioramento dell’accesso alla cultura grazie all’impegno delle moderne tecnologie di digitalizzazione. Di grande rilevanza è stato il coinvolgimento attivo, non solo sul piano finanziario, della regione Basilicata, delle municipalità circostanti e soprattutto la partecipazione attiva di tutti i cittadini che sono stati coinvolti nella progettazione della candidatura, rappresentando un processo che è partito dal basso per arrivare verso l’alto.
Particolarmente apprezzato dalla giuria è stata la dimensione fortemente internazionale delle attività proposte e la conseguente capacità di creare un polo attrattivo su scala europea, con l’ulteriore intento di valorizzare l’intera area mediterranea.
Leggendo il dossier di candidatura di Matera 2019 e tutti gli incartamenti on line relativi, emerge come la candidatura di Matera abbia innescato un processo di riqualificazione territoriale, di rigenerazione urbana -soprattutto per mezzo dell’utilizzo di una progettazione integrata che si è avvalsa della cooperazione tra pubblico, privato e comunità locali – e una pianificazione strategica territoriale di lunga prospettiva.
Il primo risultato utile e fondamentale di Matera 2019 è stato quello di rafforzare la cittadinanza culturale, incrementare le relazioni internazionali, valorizzare un movimento emergente di creative bureacracy, trasformando la piccola realtà nella più importante piattaforma aperta del sistema culturale del mezzogiorno italiano e del Sud Europa
Sicuramente Matera 2019 è da considerarsi una candidatura unitaria che ha coinvolto tutti: le principali istituzioni della regione Basilicata, i comuni di Matera e Potenza e le loro province, la Camera di Commercio di Matera e l’Università della Basilicata hanno partecipato in modo compatto e corale alla realizzazione del progetto.
Nel corso del tempo è aumentato in maniera significativa il numero di soggetti sostenitori della candidatura che è arrivato a ricomprendere tutti i comuni della Basilicata oltrepassando i confini regionali, comprendendone anche alcuni della Murgia pugliese e del Cilento campano.
Il sostegno delle istituzioni locali e regionali non è mai mancato fin dalla prima proposta di candidatura avanzata nel 2009 da un gruppo di giovani costituitisi nell’Associazione Culturale Matera 2019. Per rafforzare e condividere tale percorso le istituzioni hanno dato seguito al lavoro di questa giovane associazione e, nel luglio 2011, hanno istituito il Comitato Matera 2019 con una sua autonomia giuridica per preparare e sostenere unitariamente la candidatura.
Insomma, la risposta alla domanda “Perché Matera?” è sicuramente la volontà cosciente di voler partecipare a questa grande manifestazione europea in modo coerente e unitario per cercare di prendere al volo un’occasione di rilancio generale e generalizzato. Una volontà talmente radicata che ha messo in moto un processo di discussione sulla città e sul territorio senza precedenti. Ed è per questo che la candidatura di Matera è risultata vincente, perché tutti i cittadini ci hanno creduto fino in fondo. Questa città ha una storia da raccontare lunga secoli e in pochi ricordano che fino a qualche decennio fa era considerata la vergogna di un paese intero. Oggi invece è l’esempio migliore dato al nostro paese – e anche un po’ al mondo – di come un paese di poco più di sessantamila abitanti possa, con impegno sacrificio e dedizione, arrivare sulla cima della cultura europea.
Da sempre Manageritalia compie periodicamente una profonda e dettagliata analisi del tessuto economico delle varie regioni d’Italia. In qualità di Presidente della zona del Lazio, e non solo, sono stato testimone e portavoce di questo lavoro che ritengo utile anche per comprendere meglio alcuni fenomeni sociali e, di conseguenza, politici.
Nei primi anni Duemila l’area di Roma e la sua provincia crescevano a ritmi superiori alla media nazionale dell’1% annuo circa. Gli anni della crisi economica, tuttavia, hanno modificato e, in un certo senso, stravolto questo trend, invertendone la tendenza in modo traumatico. La crisi ha cambiato il volto economico di Roma e della sua provincia, dando vita alle dinamiche estremamente complesse che tutti i cittadini vivono ormai da un decennio. Andando più nello specifico, infatti, in questi anni, si è assistito a un calo del valore aggiunto pro-capite in diminuzione di oltre il 10%. Per semplificare al massimo, il valore aggiunto pro-capite è dato dalla differenza tra il valore della produzione del periodo e i consumi di materie e servizi dello stesso periodo diviso il numero degli occupati, e, sempre sulla base dei dati Istat, dall’inizio della crisi la produttività del lavoro il Lazio ha mostrato una dinamica peggiore della media nazionale, perdendo nel periodo 2007-2016 circa 5 punti percentuali rispetto alla media italiana.
Al contempo, però, gli occupati tra 2007 e 2016 sono aumentati di 190.000 unità, pari al +11,8% e le imprese registrate sono aumentate di 65.177 unità, con un incremento percentuale del 15,5%. Più imprese, più lavoratori, ma meno ricchezza prodotta, una tendenza che dovrebbe far riflettere.
La sensazione è che il sistema economico di Roma e provincia abbia sperimentato una crescita del numero di lavoratori e del numero di imprese, senza tuttavia riuscire a innescare un percorso di vera rinascita economica, generando una crescita imprenditoriale e occupazionale a basso valore, con un impatto negativo sul versante della qualità del lavoro e della sua capacità di produrre reddito, contribuendo così, assieme a numerosi altri fattori, a un aumento della percezione della precarietà da parte dei cittadini.
Roma sembra diventare sempre più la città dei “lavoretti” e dell’impresa “per necessità”. Un sistema produttivo sempre più “polverizzato” dove la dimensione media delle imprese è sempre più piccola. Molte grandi aziende stanno riposizionando e modificando le loro strategie di investimento, penalizzando Roma che in questa fase non gode di una buona immagine come “città d’affari”. Ma, oltre all’impatto negativo delle grandi imprese che lasciano la città, il danno più rilevante deriva dalle nuove imprese che non riusciamo ad attrarre.
Il fenomeno della polverizzazione delle imprese, con dimensioni sempre più ridotte, potrebbe però trovare un punto di cambio di trend grazie alla diffusione delle imprese innovative nella nostra regione.
La dinamica della produttività di un Paese e di una regione è fortemente influenzata dalla capacità del suo tessuto produttivo di innovare. La capacità innovativa del Lazio è più elevata della media nazionale, grazie a una buona dotazione di capitale umano occupato e alla ricerca svolta dalle Istituzioni pubbliche.
Il miglior risultato del Lazio rispetto alle altre regioni italiane è riconducibile a una spesa pubblica in ricerca e sviluppo e qualità del capitale umano (istruzione universitaria, numero di addetti nei settori high-tech, pubblicazioni scientifiche internazionali) superiori alla media.
Nel Lazio, tra il 2012 e il 2016, la quota di occupati in possesso di una laurea si è attestata in media al 26,1%, un valore più contenuto della media UE-28 (33,0%), ma superiore a quello del Centro e alla media nazionale (23,0% e 20,2%, rispettivamente).
Nel 2012 è stato introdotto in Italia uno specifico regime giuridico e fiscale per agevolare la nascita e lo sviluppo delle imprese ad alta capacità innovativa, chiamate start-up innovative.
Alla fine del 2017 nel Lazio erano iscritte al Registro delle Imprese delle Camere di Commercio 805 start-up innovative (circa il 10% del totale nazionale); la regione era terza per numero di start-up dopo la Lombardia (1.909) e l’Emilia Romagna (862).
Nel Lazio l’incidenza delle start-up dei servizi è superiore alla media, riflesso del maggior peso del comparto sulla struttura economica regionale. In particolare il Lazio appare specializzato nelle start-up dei servizi di trasporto, sanitari, di quelli collegati al turismo, dell’informatica e delle telecomunicazioni.
In conclusione, abbiamo notato segnali contrastanti di sviluppo e ripresa a cui proviamo a dare giustificazione riferendoci all’ambiente particolare nel quale operano le imprese della nostra regione.
Invece, segnali di sviluppo consistenti e netti si registrano nel mondo delle start-up innovative e nell’economia della conoscenza, con un utilizzo di forza lavoro qualificata ben al di sopra della media nazionale.
Manageritalia ha già intercettato questi due temi e ha impostato parte della propria operatività su innovazione ed economia della conoscenza, ritenendo che il nostro ruolo di agenti del cambiamento e portatori di cultura manageriale, di innovazione e sviluppo sostenibile ci debba portare ad essere sempre più presenti e attivi su questi temi.
Leggere un libro al giorno d’oggi è diventato quasi un privilegio: le giornate sono scandite da ritmi velocissimi che non permettono di fermarsi neanche per godersi qualche istante una propria passione. Mi viene in mente il film “About a boy” con Hugh Grant dove il protagonista, un ricco single che vive di rendita grazie alla gloria del padre, scandisce le sue giornate in quote da trenta minuti da dedicare alle attività più varie.
Per una persona “normale” tutto ciò è un miraggio: è difficilissimo trovare il tempo da dedicare ad attività che non siano lavoro, traffico, cura della famiglia, della casa, insomma tempo da dedicare a se stessi. E quasi impossibile è trovare il tempo da passare in solitudine nella propria casa, isolati dal resto del mondo per immergersi completamente nella dimensione esistenziale alternativa della narrazione. “Leggere un libro” significa entrare in un luogo che ha un odore particolare: bisogna sceglierlo con cura tra tanti, magari già sapendo quale prendere o lasciandosi guidare dal proprio istinto, bisogna poter toccare la copertina, assaporarne il profumo e accarezzarne le pagine, lisce o ruvide a seconda dell’edizione.
Forse non c’è la stessa magia quando si acquista uno “scaricabile” su smartphone, forse non c’è la stessa relazione alchemica. Ma questo romanticismo sta svanendo in un’epoca in cui tutto deve essere più smart possibile e anche la lettura sta diventando, da una parte un bisogno “mordi e fuggi”, dall’altra un mercato sempre più digitale anche per questioni di sostenibilità. Il modo di approcciare alla lettura, in ogni caso, si è trasformato in una dinamica frammentata che quasi fa perdere il gusto della storia e i sapori dell’emozione: si legge dieci minuti in sala di attesa mentre si aspetta di entrare dal medico, si legge per venti minuti sull’autobus mentre si fa il tragitto casa-lavoro o si leggono due o tre pagine prima di crollare la sera tra le braccia di Morfeo.
Già nel 2015, secondo una ricerca Nielsen, il 54% dei consumatori di libri negli USA dichiarava di avere usufruito del proprio smartphone per leggere un libro almeno una volta. In Italia, da una ricerca Istat del 2016, emerge che la popolazione dei lettori è diminuita, passando dal 42% del 2015, al 40,5% nel 2016. È comunque in continua crescita il mercato digitale: più di un libro su tre è ormai disponibile anche in formato e-book, quota che sale al 53,3% per i libri scolastici. La lettura su schermo – soprattutto se piccolo – rimane però ritenuta più scomoda rispetto al cartaceo, soprattutto fra gli studenti, in quanto la memorizzazione e la comprensione delle nozioni risulta più semplice su carta.
Nel frattempo sul web si stanno sviluppando diverse comunità di lettura che promuovono il cosiddetto “Social reading”. Esiste ad esempio Wattpad, una comunità di oltre 45 milioni di persone, scrittori e lettori provenienti da diverse parti del mondo, che hanno l’opportunità di leggere e pubblicare racconti originali, o fanfiction, suddividendoli in categorie in base al genere. Oltre quindi ad offrire l’opportunità di pubblicare o leggere qualsiasi cosa, la piattaforma offre da un lato la possibilità di commentare ed eventualmente rielaborare i contenuti senza nessuna problematica nei confronti degli autori, dall’altro sminuisce la rilevanza della paternità dei testi. Un’altra grande comunità di “Social reading” è Twitteratura, per cui si sta sviluppando anche un’App – Betwyll – che permette, una volta deciso il testo da prendere in considerazione, di leggerlo simultaneamente commentandolo o riscrivendolo attraverso dei “Tweet”, in una sorta di gioco di letteratura collettiva.
La lettura è in continua evoluzione: da spazio intimo, una lettura solitaria tenendo per sé emozioni e considerazioni, a condivisione della lettura sui Social che comprende la trattazione comune di considerazioni e addirittura – inimmaginabile fino a poco tempo fa – la parafrasi o la scrittura di nuovi finali a testi importanti come ad esempio “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni.
Perché, quindi, non provare ad utilizzare questa innovazione offerta dai Social anche in azienda?
Potrebbe essere interessante adattare la condivisione dei testi e la loro parafrasi o riscrittura alla risoluzione di problemi all’interno dei team di lavoro. Mi viene in mente un buon leader alla ricerca di una lettura, di brani adatti alle situazioni critiche in azienda che, seguendo il modello offerto dalla Twitteratura e quindi condividendoli all’interno del proprio team di lavoro, sprona le persone alla parafrasi e alla ricerca di nuovi finali per la propria storia. Potrebbe essere un momento per trasformare un hobby in un’azione sistemica che porti, con una buona dose di creatività, nuove soluzioni e nuove idee alle aziende. Mi viene in mente una serie di collane editoriali proprio per esercitare la mente alla ricerca collettiva di nuove visioni e nuovi modelli in azienda.
La lettura, in ogni sua modalità e forma, a prescindere dal supporto, dal genere e dallo scopo, è e rimarrà sempre una sana abitudine, uno dei migliori nutrienti dello spirito, che potrebbe anche migliorare le prestazioni lavorative, sia in termini di soddisfazione personale, che di raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Non solo profitto, ma anche obiettivi che contemplano l’importanza del capitale umano, della sostenibilità dei progetti e, più in generale, di un’etica sempre nuova applicata all’economia attuale. Sono queste le tematiche di cui si sta occupando Roberto Saliola, Presidente di Manageritalia Roma, pensando a un futuro sempre più a portata di imprenditori che imparino dalle dinamiche che hanno caratterizzato il recente passato economico del nostro Paese e dell’Occidente in generale.
“Era il 1970 quando il fondatore del pensiero monetarista, il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, chiudeva la porta all’introduzione delle teorie economiche che volevano inserire nel bilancio delle imprese anche l’ambiente, la trasparenza della governance, il rispetto dei territori e delle comunità, dichiarando che ‘l’unica responsabilità sociale di un’azienda è fare profitti’” ha spiegato Roberto Saliola. “Quasi cinquant’anni dopo le cose sono molto cambiate. E la sostenibilità, a dispetto della schiera di critici, è diventata parte integrante del business per più della metà delle aziende del pianeta. Ma, nonostante tutto, l’economia di oggi sembra ancora vivere in una contraddizione fondamentale: da una parte la collettività richiede alle aziende maggiore responsabilità, dall’altra gli investitori e gli azionisti richiedono loro sempre maggiori profitti, nella logica dello sviluppo e del consumo. Le società tradizionali, e, nell’immaginario collettivo, i propri manager, sono tenute quindi a massimizzare il profitto come obiettivo primario e questo è il criterio dominante nei loro processi decisionali. Molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder, inclusi gli azionisti stessi. Questa forma di capitalismo ha però certamente alcuni punti di forza. Negli ultimi cinquant’anni circa, innegabilmente, il capitalismo ha avuto una responsabilità diretta nel far emergere quasi un miliardo di persone dalla povertà, nel rivoluzionare il sistema sanitario e le cure mediche e nella creazione di tecnologie digitali che hanno trasformato la vita delle persone di tutto il mondo. Ma il capitalismo moderno ha anche prodotto sperequazioni economiche, forti indebitamenti sia dei singoli, sia dei governi, la creazione di strumenti finanziari che non hanno alcun valore sociale e l’uso insostenibile di risorse fisiche e naturali destinate a esaurirsi. Eppure, tutte le alternative al capitalismo sperimentate finora si sono rivelate inadeguate”.
Come tentare, dunque, di superare tutti questi ostacoli che generano diffidenza sia nelle aziende, sia nella comunità dei clienti e dei consumatori? La risposta è nella Storia, nelle teorie economiche di numerosi studiosi del passato e del presente, ma anche nel concreto spirito di iniziativa della classe imprenditoriale e di chi la compone, il cui contributo, accanto a quello della politica nazionale e internazionale, sarà fondamentale per restituire fiducia verso un sistema economico in lenta ripresa.
“È di Winston Churchill la celebre affermazione secondo cui “la democrazia è la forma di governo peggiore, escluse tutte le altre sperimentate finora”. Si potrebbe dire altrettanto del capitalismo, in particolare della forma di capitalismo attuata da vent’anni a questa parte. Questi anni di difficoltà e crisi hanno evidenziato che alla radice del problema c’era una perdita collettiva di una bussola morale. Troppe persone hanno anteposto l’interesse egoistico all’interesse generale. Tutto era volto ad “avere di più”, invece che a “vivere di più”, tutto era rivolto a concentrare anziché includere. E se troppe persone si sentono escluse dal sistema e non possono accedere ai vantaggi che questo offre, alla fine allora si ribelleranno, estraniandosi dal sistema stesso o facendo ricorso alla violenza. Il sistema capitalistico va corretto, non cancellato, e per correggere le lacune del capitalismo siamo chiamati, come categoria, a fare, a mio avviso, soprattutto due cose: la prima è adottare una prospettiva a lungo termine; la seconda è rivedere le priorità dell’imprenditoria. La visione a breve termine che caratterizza l’imprenditoria moderna è stata definita “capitalismo trimestrale” da Dominic Barton della McKinsey e “gestione orientata all’aspettativa” da Roger Martin nel suo libro “Fixing the Game”. E la visione a breve non prevede lo spazio necessario allo sviluppo di percorsi paralleli al core dell’impresa o a logiche di inclusione e sostenibilità”.
Il nuovo modello di imprenditoria che, secondo Roberto Saliola, si preoccupa della sostenibilità, dell’inclusione e della cosiddetta etica del profitto è un sistema in grado di fare previsioni più a lungo termine possibile, che calino il complesso produttivo nella società e nelle sue esigenze, caratterizzate sia da una realtà economico sociale, sia dalla percezione che tutti gli operatori del mercato e i cittadini hanno della realtà stessa. In questo modello le aziende sono soggetti attivi che partecipano alla gestione corretta dell’ambiente, sia esso antropico o naturale, prestando attenzione alle risorse rinnovabili e alle loro potenzialità.
“Un nuovo modello di imprenditoria è un modello che si concentra sul lungo termine. Un modello che intende l’impresa come parte integrante della società, non come un’entità avulsa. Un modello in cui le aziende tentano di affrontare i grandi problemi sociali e ambientali che minacciano la stabilità sociale. Un modello in cui i bisogni dei cittadini e delle comunità pesano quanto le richieste degli azionisti. Ma anche la convinzione che a lungo termine, non c’è società e quindi nessun impatto, se non c’è profitto. Anche le priorità dell’imprenditoria vanno messe in discussione. Il valore delle quote azionarie non può essere il solo driver dell’impresa e massimizzare i profitti degli investitori non può più essere lo scopo principale dell’impresa. La grande sfida del XXI secolo sarà di garantire un buon tenore di vita a sette miliardi di persone senza depauperare le risorse della Terra o ricorrere a livelli incontenibili di indebitamento pubblico. Per raggiungere questo scopo, i governi così come le imprese dovranno trovare nuovi modelli di crescita che siano equilibrati, sia sul piano ambientale, sia sul piano economico. E per far questo serviranno anche nuovi livelli e nuovi modelli di leadership. L’imprenditoria e la classe manageriale devono decidere quale ruolo intendono svolgere. Siederanno in tribuna in attesa che i governi agiscano o entreranno in campo per affrontare le questioni? Essere un manager etico vuol dire riuscire a tenere insieme e far convivere al meglio la parte che genera ricchezza per l’impresa e quella che genera ricchezza per la società̀ in generale. La morale non è un limite, ma una carica creativa. Se continuiamo a consumare risorse cruciali come l’acqua, il cibo, la terra e l’energia senza pensare alla sostenibilità a lungo termine, allora nessuno di noi potrà prosperare. Se l’imprenditoria vuole riconquistare la fiducia della società, deve cominciare a intervenire sui grandi problemi sociali e ambientali che l’umanità si trova a fronteggiare, specialmente in un momento in cui i governi sembrano impigliati in cicli elettorali sempre più serrati e hanno difficoltà a interiorizzare le sfide globali in un mondo sempre più interdipendente e ad uscire “dall’economia trimestrale”. Il termine che usiamo di più per delineare questa tendenza è che stiamo distruggendo il nostro pianeta, ma c’è una precisazione da fare in merito: stiamo distruggendo noi stessi, l’uomo scomparirà, la Terra no, impiegherà forse centinaia di migliaia di anni, ma poi la Terra tornerà e rifiorirà. Senza più noi, però”.
L’unico modo, quindi, per invertire questa tendenza all’autodistruzione, prima che sia troppo tardi, è la partecipazione attiva dell’impresa alla coniugazione tra le esigenze dell’ambiente, della società e dell’economia. In due parole: una sostenibilità consapevole e un’inclusione equa, non solo perché è utile e conveniente, ma anche perché è eticamente giusto per il bene di tutti, produttori e consumatori.
“‘L’impresa non può essere un mero spettatore nel sistema che le dà vita’. L’ambientalista Paul Hawken ritiene che se in questo momento c’è un deficit da affrontare, è un deficit di significato. E la necessità di un cosiddetto PIL+, di un parametro cioè più ampio per valutare il successo che non sia il semplice accumulo di ricchezza, è ormai entrato nelle discussioni politiche ed economiche e parzialmente anche nelle decisioni dei Governi. Per le imprese, impegnarsi attivamente non è solo la cosa giusta da fare da un punto di vista morale: è anche la congiunzione astrale perfetta, il punto cioè ideale di contatto tra agire etico, essere sostenibili e fare profitto”.
All’alba di un nuovo anno scolastico, parliamo dell’Alternanza scuola – lavoro in considerazione del fatto chemigliaia di studenti si troveranno a viverla durante i prossimi mesi e con loro, i genitori.
Cos’è?
Parliamo di una attività didattica obbligatoria innovativa ed esperienziale dedicata agli studenti iscritti alla terza, quarta e quinta classe delle scuole superiori.
Regolata dalla legge n. 107/2015, meglio conosciuta come la Buona Scuola, ha l’intento di abbattere la distanza tra le scuole superiori e il mondo di lavoro, con lo scopo principale di “far provare” agli studenti il mondo del lavoro al quale si affacceranno dopo il liceo, qualsiasi esso sia.
Infatti, per far orientare gli studenti rispetto gli ambiti lavorativi di competenza, i vari percorsi, seppur differenziati in base all’indirizzo dell’istituto, sono stati previsti sia per i licei convenzionali che per gli istituti tecnici e professionali.
Inizialmente dedicata agli studenti frequentanti il terzo anno nell’anno scolastico 2015/16, è stata estesa l’anno successivo agli studenti del quarto anno, per riguardare infine tutti quelli iscritti al triennio delle superiori a partire dall’anno 2017/18.
Ciò che differenzia maggiormente la tipologia dell’alternanza scuola-lavoro è la totalità di ore da svolgere durante il triennio: duecento ore per i primi, almeno quattrocento per i secondi.
Ciò cheli accomuna sono i periodi in cui può essere svolta e il dove, oltre il fatto che, in modo assolutamente categorico, non determina il sorgere di un rapporto di lavoro tra studente ospitatoe partner ospitante.
Che sia durante l’anno, nel periodo generalmente di vacanza o in quelli della normale sospensione didattica, in Italia o all’estero, l’alternanza scuola lavoro può essere svolta con le aziende del terzo settore o con gli ordini professionali,congli istituti pubblici e privati operanti nei settori del patrimonio e delle attività culturali, ambientali artistiche e musicali, nonché con entidi volontariato o di promozione sportiva no profit.
A decorrere dall’anno scolastico 2015/2016 é istituito presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura un Registro nazionale delle imprese scuola lavoro per cercare i soggetti che offronopercorsi di alternanza scuola-lavoro ed apprendistato.
Perchè il sistema fosse completo e totalmente regolamentato, nel dicembre 2017 è stato emanato il Regolamento che definisce la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro con lo scopo principale di informare correttamente studenti e genitori, nel rispetto del dialogo costruttivo e di condivisione che deve essere alla base del rapporto scuola-famiglia.
Questa carta dei diritti e dei doveri prevede che ai ragazzi venga destinato un ambiente di formazione adeguato e sicuro, che miri alla crescita del singolo in modo coerente con il percorso scolastico intrapreso, affiancati da tutor destinati a seguirli durante tutto il periodo e sotto la vigilanza delle commissioni istituite presso ogni ufficio scolastico.
Infine è stato predisposto e previsto tutto l’ambito delle valutazioni di efficacia dell’intero percorso di alternanza scuola lavoro, svolto dallo studente interessato, dal dirigente scolastico che avalla il progetto, dalla commissione scolastica che garantisce e segue il percorso.
Come funziona?
L’alternanza scuola lavoro è un percorso fatto di tappe che lo studente affronta come singolo oppurecome gruppo classe.
Entrambe le tipologie hanno lo scopo di simulare la situazione lavorativa nel suo contesto originario ma, mentre nel primo sarà il singolo a vivere l’esperienza in tutte le sue sfaccettature, nei progetti destinati al gruppo classe ognuno può vivere una esperienza differente contribuendo al raggiungimento di un obiettivo finale comune legato al territorio.
Prima di tutto bisogna scegliere un percorso personalizzato che introdurrà i soggetti in una azienda o in un ente con l’ausilio di un tutor scolastico, il quale seguirà le successivefasi dell’esperienza.
Scelto il percorso avviene l’incontromateriale con l’azienda o con l’ente, affinchè lo studente prenda consapevolezza della scelta e sia pronto ad iniziare il percorso, anche e soprattutto dopo aver conosciuto il tutor aziendale o dell’ente.
La terza fase riguarda invece il così detto piano formativo attraverso cui i vari soggetti coinvoltistipulano e firmano il progetto dell’alternanza scuola lavoro per il suo svolgimento.
L’ultima fase, non meno importante, è quella della Valutazione finale sia per lo studente che per l’azienda. Il primo sarà valutato dalla scuola e dall’azienda che emetteranno un giudiziosull’esperienza complessiva dello studente, rilasciando il Certificato delle competenze. La seconda, a sua volta, sarà valutata dalla scuola e dallo studente che dovrà certificare la reale formazione ricevuta.
I primi dati ufficiali
A maggio 2018 è stato rilasciato dal Miur il primo report ufficiale con la raccolta dei dati dell’alternanza scuola-lavoro per l’anno 2016/17 che ha toccato le scuole pubbliche e paritarie italiane, escludendo quelle della Valle d’Aosta e delle province autonome di Trento e Bolzano perchè non gestite dall’Anagrafe Nazionale degli Studenti.
E dunque:
nell’anno scolastico 2016/17 seimila scuole hanno svolto progetti di Alternanza scuola- lavoro;
più del 94% delle scuole statali in ogni regione ha attivato tali progetti;
76.246 progetti hanno coinvolto 937.976 studenti del triennio, nonostantel’obbligatorietà non fosse entrata completamente a regime;
Lombardia, Piemonte e Lazio detengono il maggior numero di progetti di alternanza scuola lavoro attivati, mentre inMolise ein Umbria sono stati registrati i valori più bassi;
più dell’88% dei progetti hanno una durata annuale e i percorsi sono stati attivati per il 55% nei licei, per il 30% nei tecnici ed il restante 15% negli istituti professionali.
Insomma, un ottimo primo rapporto per questo progetto formativo di massa andato completamente a regime durante il passato anno scolastico, nonostante con l’avvento del nuovo governo si sia parlato di modifiche alla buona scuola.
Vedremo cosa cambierà e, nel frattempo, buon ritorno sui banchi a tutti gli studenti e ai professori, nuovi e vecchi.
Francesca Tesoro
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